I SEGRETI DELLA FELICITA'

La felicità


Chiedetelo ai turisti ipnotizzati dalle canzoni struggenti dei mariachi o dai ritmi travolgenti di merengue e di calipso. Agli italiani che ogni anno ripartono sedotti da Cancun, o che da Puerto Escondido non sono più tornati. A chi arriva da mezzo mondo, incapace di spiegare l'incantesimo della Selva del Chiapas e della Ruta Maya. E da tutti avrete la conferma: la felicità si incrocia tra il 31 parallelo nord e il 13 parallelo sud.
Non è solo un'impressione da stranieri: il Messico è davvero il Paese più felice del mondo. Lo dichiarano i messicani stessi, in un'indagine intitolata "Global Happiness" che Coca-Cola ha appena realizzato insieme con l'Università Complutense di Madrid: una ricerca su 16 nazioni, dall'Italia alla Cina, dal Sudafrica alle Filippine, per indagare i livelli di felicità nelle diverse culture. 

Per stilare la classifica dei popoli più felici, i ricercatori hanno elaborato un Happiness Index , a partire da una scala di valori sviluppata dallo psicologo americano Ed Diener: un indice, da 1 a 100, risultante dalla somma di indicatori come la soddisfazione personale, l'ottimismo e l'energia, il senso di orgoglio, di utilità, le relazioni sociali, ma anche le percezioni negative e le emozioni peggiori indotte da una società. In base a questo indice, i livelli più alti di felicità si riscontrano in quel cocktail multietnico che compone la popolazione messicana: con un punteggio di 87,7, la felicità sembra pervaderla tutta, senza distinzioni di sesso, di età, di posizione sociale. 

A confronto coi latinos, crolla, insomma, la proverbiale "hygge" dei danesi: quel sentimento di convivialità e di soddisfazione sociale che ha fatto per anni piazzare la Danimarca al primo posto nelle classifiche sulla qualità della vita. Ed è una sorpresa anche la seconda posizione dei filippini, con un punteggio di 86,4. Al terzo posto si piazzano gli argentini e i sudafricani (entrambi con 80 punti). L'Italia risulta a metà della classifica (76), chiusa da Bulgaria (73,9) e Francia (72,3): la nazione più infelice in assoluto. Fonti di felicità? Per tutti, i legami profondi con la famiglia e una gratificante relazione con un partner. A seguire i soldi, che, fuori scena in altre indagini, tornano qui disinvoltamente a esercitare il loro fascino. 

E se il Paese nel quale sembrano contare di più è la Russia, anche gli italiani si fanno notare: per uno su tre degli intervistati, vincere alla lotteria sarebbe in assoluto la più grande fonte di felicità. Ma c'è anche la possibilità di viaggiare, tra le situazioni che danno felicità. E di fare del bene agli altri: il volontariato è visto come occasione di gioia e di benessere dal 17 per cento degli italiani. "Ciò che di gran lunga rende felici le persone è stare insieme agli altri", spiega Richard Stevens, psicologo sociale e tra i guru internazionali del pensiero sulla felicità: "Il denaro è importante, ma non rende le persone felici. 

Soprattutto, superata una certa soglia di reddito, diventa piuttosto irrilevante. Senza relazioni sociali, senza l'amore, la famiglia e le amicizie, la maggior parte delle persone non sarebbe affatto felice".
"A dispetto di fenomeni forti di virtualità, questa ricerca ribadisce l'importanza dei legami fisici, dei momenti di convivialità, del piacere di stare insieme", aggiunge Sara Ranzini, direttore Comunicazione di Coca-Cola Italia, che annuncia per il 20 e 21 giugno una tappa a Roma di Expedition206 ( www.expedition206.com ), progetto complementare di Coca-Cola con il quale tre giovani "ambasciatori della felicità" stanno girando il mondo per scoprire cosa rende davvero felice la gente: "Basta guardare ai momenti migliori della giornata, a livello globale: nel 39 per cento dei casi la sera, quando ci si ritrova con amici e parenti; poi quando si mangia; mentre si chiacchiera". 

"Dipende però dai contesti culturali", obietta l'antropologo Duccio Canestrini: "C'è una socialità che è ingerenza, controllo, che genera stress e induce a mascherarsi dietro avatar. E la famiglia è, in casi neanche troppo rari, fonte di dissidi e di infelicità. Evitiamo di incorrere nell'imperativo statunitense della felicità a tutti i costi". 
Su una cosa Canestrini non ha dubbi: esistono davvero popoli con una propensione alla felicità più spiccata di altri. "Il Sudamerica ha una disposizione d'animo più incline all'ironia e alla goliardia. Se Maya e Aztechi, cupi ed angosciati, placavano le loro ansie con sacrifici umani, i latinos sono generalmente allegri, facili al sorriso. Un classico dell'antropologia è un libro di Jacques Lizot sugli Yanomami del Brasile: che passavano le serate a raccontarsi storielle e a sbellicarsi dalle risate, tanto da cadere dalle amache. E anche ai Taino, civiltà precolombiana decimata dai conquistatori, la letteratura attribuisce doti di grande ironia e capacità di godersi la vita. Al contrario, i Vedda, aborigeni dello Sri Lanka, sono stati tradizionalmente considerati un popolo che non sapeva sorridere". E che dire dei sorrisi indiani, misteriosi emblemi di un modo di essere, più che di forme di avere: "Forse non è felicità, ma è un distacco dalle cose della vita che le somiglia molto", continua Canestrini: "Felicità è anche sapersi accontentare: avere un salario adeguato, spedire lontano dei soldi con la speranza che la vita futura possa essere migliore per sé e per la propria famiglia, genera un atteggiamento positivo: in questo senso comprendo bene la seconda posizione in classifica dei filippini".

Ridono, si salutano, scherzano, fanno le dog sitter e le baby sitter, le custodi e le colf, portano una ventata di ottimismo nelle case in cui lavorano: le domestiche filippine sono da anni oggetto di osservazione di sociologi, psicologi ed economisti, se non altro per dimostrare che la gente non è più contenta quando è più ricca. "Sono felice perché anche questo mese ho spedito a casa dei soldi che permetteranno a mia sorella di studiare e ai miei quattro fratelli di aiutare i loro bambini", dice Themz, che lavora a Roma, e viene da Batangas. E il suo è un discorso analogo a quello di tutte: il lavoro, la solitudine, la lontananza mitigati dal senso di comunità, da una causa eroica. Non a caso, tra di loro, e nelle directory on line che si intrecciano in Rete, si chiamano "bayani": eroine. E non è una sorpresa assoluta: sul sito della società americana di ricerche Gallup si monitora costantemente la felicità dei popoli. 

Il saggio del giornalista Donato Speroni (in uscita per Cooper), "I numeri della felicità. Dal Pil alla misura del benessere", evidenzia la felicità dei Paesi latini: in Colombia, cultura e tolleranza guidano l'ascesa di un appagamento sociale, nonostante criminalità e insicurezza. E se il reddito pro capite è basso, se il tasso di analfabetismo è pari al 94 per cento, turismo in crescita e sviluppo economico stanno alzando i livelli di spensieratezza e soddisfazione. Nettamente più infelici si confermano i popoli baltici. Dell'Europa colpisce il regresso: la Spagna perde posizioni, la Francia precipita. 

"È relazionale il cuore del problema", sostiene l'economista Stefano Bartolini nel recente "Manifesto per la felicità" (Donzelli): i redditi sono cresciuti, ma non in misura tale da compensare il deterioramento delle relazioni familiari. "Aumento della solitudine, della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, dell'instabilità delle famiglie, delle fratture generazionali", tutto ciò allontana la felicità. E gli italiani sarebbero tra i più scettici sulla possibilità di cambiare le cose. Ma si può rimediare? Mentre la felicità diventa obiettivo dell'azione politica, Bartolini suggerisce di cominciare a "cambiare l'anima degli spazi urbani, per orientarli a fini relazionali": sarà un caso, ma proprio a Città del Messico ("el Monstruo"), l'amministrazione ha investito in spiagge urbane, piste ciclabili, nuovi spazi di aggregazione. E il movimento per le città felici si muove ormai in tutto il mondo: da "Forbes" l'ultima classifica "The World's Happiest Cities" mette al top Rio de Janeiro.

"Nella comunità c'è la bussola della vita. Senza comunità si smarrisce la direzione", ribadisce Luciano Stella, ideatore del festival L'arte della felicità (www.artedellafelicita.com ), incontri e conversazioni sul tema, da seu anni a Napoli: "C'è in questi immigrati una capacità di intravedere un'evoluzione sociale e personale. C'è senso del futuro: i sacrifici estendono le proprie possibilità. La condizione che oscura gli occidentali è non capire che la nostra gioia è correlata agli altri. Ed è il risultato di un alto "artigianato" personale: si può essere felici solo a patto di stare nel flusso della vita, di accettare che la felicità non è mai assoluta o per sempre. E ha bisogno di uno sguardo largo, di una prospettiva decentrata: in questo modo, la mia infelicità non sarà mai schiacciante". 

Certo è che dopo anni di slogan e di pressioni su una felicità a tutti i costi, sembra arrivato il tempo di ridefinirne la nozione. Di lanciarne una nuova versione, più ancorata a valori spirituali o all'impegno sociale, meno a obiettivi materiali. Ed è il sempre invocato Buthan, che ha sostituito al Pil la Gross National Happiness, la Felicità nazionale lorda, a indicarne la traiettoria. Lo ha appena spiegato il primo ministro del minuscolo Stato himalayano Jigmi Y. Thinley, al Festival dell'Economia di Trento: "Volete una nazione felice? La felicità poggia su quattro parametri: sviluppo equo, sostenibilità ambientale, promozione della cultura e delle relazioni, buongoverno". È la felicità 2.0.

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