Solitudine e sofferenza


La solitudine e' una sofferenza, ma anche una risorsa

La solitudine e' una sofferenza, ma anche una risorsa Come cantava Gaber «e' indispensabile per star bene in compagnia»:coltivare il dialogo interiore, prendere coscienza del se' piu' autentico, diventa una forma di autoterapia
La malattia piu' grave non e' la lebbra o il cancro, ma la sofferenza dovuta al sentirsi trascurati, abbandonati e soli». Questa la convinzione di Madre Teresa di Calcutta, maturata in una vita tutta spesa contro la malattia e la poverta'.
Il dolore piu' forte non si annida nelle piaghe della carne, ma in quelle dello spirito.
E assume il volto della SOLITUDINE, della mancanza di legami soddisfacenti, dell'isolamento. Chi e' in questa condizione corre non pochi rischi, sia psicologici che fisici. La solitudine predispone alla malattia quanto il fumo, l'obesita' o la pressione alta, e puo' a lungo andare indebolire anche le difese immunitarie.Tra le cause dei suicidi e dei tentativi di suicidio, l'isolamento e' una delle piu' frequenti. Sono poi noti i legami della solitudine con la depressione, la bassa autostima, alcune forme di nevrosi, sintomi ansiosi, tendenze aggressive,ecc.: tutti stati d'animo alterati o incerti oggi particolarmente diffusi.
Spunti come questi sono alla base dei lavori degli psicologi sul tema della solitudine, i cui primi contributi datano a circa 50 anni fa. Essi costituiscono anche il punto di partenza del volume Sentirsi soli di Maria Miceli, ricercatrice del Cnr di Roma, che tuttavia si muove in un quadro piu' ampio.
Leggere la solitudine (e le sue sofferenze) puo' aiutare a capire cosa desideriamo o ci aspettiamo dagli altri e offrirci una prospettiva nuova da cui guardare all'intimita', all'amicizia, all'amore. Inoltre, la solitudine non e' soltanto una carenza, ma puo' rappresentare una risorsa a disposizione del singolo per ritrovare una sua identita' di fondo, anche in una societa' difficile come l'attuale. Di qui gli interrogativi su cui e' costruito il lavoro.
La solitudine e' un'epidemia contemporanea oppure e' una esperienza universale, un «rischio» che si corre per il fatto stesso di esistere? Che differenza c'e' tra l'essere soli e il sentirsi soli? Perche' oggi si e' attratti da chi compie grandi imprese solitarie (eremiti, navigatori, cultori di sport estremi, ecc.), mentre si teme la solitudine in una vita quotidiana pur densa di rapporti e di bagni di folla? Ancora, quali sono i fattori oggettivi e soggettivi che piu' espongono le persone alla solitudine? Infine, come intervenire? Che fare per non sentirci soli?
Vari letterati e filosofi hanno celebrato la solitudine «positiva», cui Giorgio Gaber ha dedicato una nota canzone: «La solitudine non e' mica una follia, e' indispensabile per star bene in compagnia».
E' la capacita' di stare bene con se stessi, di coltivare il dialogo interiore, di prendere coscienza del «se' piu' autentico». Saper stare da soli ci aiuta a stare meglio con gli altri, perche' si ha qualcosa da offrire e da scambiare.Altrimenti nei rapporti si rischia di essere troppo dipendenti e opprimenti, troppo ansiosi di contatti e di conferme affettive. Tuttavia, degli altri abbiamo un gran bisogno e il deficit di rapporti soddisfacenti e' dietro l'angolo della vita di ognuno, anche di chi ha un'agenda molto fitta di impegni o di un adolescente che si sente incompreso dai genitori.
La solitudine, infatti, e' un malessere molto «democratico», che non risparmia nessun gruppo sociale. All'essere soli sono ovviamente piu' esposte alcune categorie di persone, come gli homeless, i vedovi, i vecchi, gli immigrati. Ma questa carenza coinvolge molte vite «normali» e anche i rapporti matrimoniali.
Tra gli sposati, sono le donne a sentirsi piu' sole, mentre tra i non sposati (vedovi, divorziati e single) sono piu' gli uomini a soffrire di solitudine. Le donne, cioe', sembrano piu' in grado di vivere da sole, ma in una vita a due tendono a essere piu' esigenti, per cui sentono la solitudine quando la qualita' del rapporto e' debole. Gli uomini invece hanno piu' bisogno di una vita di coppia, pur essendo meno esigenti in tema di comunicazione. Gli psicologi distinguono tra una SOLITUDINE affettiva e una SOLITUDINE sociale.
I sintomi della prima sono l'ansia da separazione, il senso di abbandono e di vuoto, di grande vulnerabilita' e impotenza. E' la paura di non farcela di fronte agli impegni ordinari della vita. Qui il sentirsi soli puo' essere la conseguenza della perdita di una persona cara, ma puo' anche essere dovuto a una privazione di attaccamento tipica di un'infanzia infelice.
La SOLITUDINE SOCIALE si esprime invece nella difficolta' a collocarsi nella societa', per cui ci si sente fuori posto, non accettati e riconosciuti, o addirittura esclusi e rifiutati dagli altri. Queste carenze possono in parte essere compensate da strategie personali e terapie capaci di riconciliare l'individuo con il se' ultimo.
Cosi' si puo' stare da soli senza sentirsi soli e la capacita' di stare con se stessi aiuta a vincere il senso di solitudine. La proposta di una particolare terapia per combattere l'inquietudine e' oggetto anche del volume Autoanalisi per non pazienti con cui Duccio Demetrio, filosofo dell'educazione alla Bicocca di Milano, ritorna sul tema a lui caro del «raccontarsi». A questa tecnica facciamo sovente ricorso nella vita quotidiana, per ritrovare il bandolo dell'esperienza, per narrare momenti e stati d'animo particolari. Cio' vale in particolare nel caso della scrittura introspettiva, che si alimenta di diari e poesie, di meditazioni e racconti, ma anche di qualche biglietto e di poche righe che riflettono la frammentarieta' del vivere. E' un modo per fissare emozioni e sentimenti, per lasciar traccia del vissuto, per cogliere un se' che pulsa dentro e oltre la vita ordinaria. Tracce, indizi, parole di se' che non placano necessariamente l'inquietudine, ma che possono essere il sintomo di una ricerca interiore e della passione di esistere
Autore Franco Garelli -  07-02.'04
Fonte TUTTOLIBRI -www.lastampa.it

Lo Spirito Santo


Lo Spirito Santo

Nel mondo ci sono diverse religioni, tra queste, tre sono quelle che insegnano l'esistenza di un solo Dio: la religione degli Ebrei, la religione dei cristiani e la religione dei mussulmani. La religione degli Ebrei e quella dei Mussulmani insegnano che Dio è il creatore del mondo, che è buono, misericordioso, sapiente, che ha cura degli uomini e alla fine giudicherà ciascuno secondo le sue opere.
La religione dei cristiani oltre ad insegnare queste cose, insegna qualche cosa in più, insegna anche come è fatto Dio al suo interno e ci dice che Dio è costituito da tre persone uguali e distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo Sono una comunione di Sapienza e di Amore.
Che le cose siano così, l'uomo non arriva a scoprirlo con la sua intelligenza, ma arriva a crederlo perchè Dio glielo rivela.
Dio che aveva già parlato nei tempi antichi, molte volte e in diversi modi… per mezzo dei profeti, ultimamente… ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (Eb 1,1).
Gesù dunque, facendosi uomo, parla agli uomini delle cose di Dio con un linguaggio adatto alla loro capacità di comprendere; è quindi Lui che ci rivela il Padre, se stesso e lo Spirito Santo.
Caratteristica propria di ciascuna persona divina
Dallo studio della Sacra Scrittura e delle parole di Gesù, appare inoltre che ciascuna persona divina ha caratteristiche sue proprie; si osserva infatti una particolare relazione fra il fatto di esistere e la persona del Padre, fra la sapienza o la conoscenza e la persona del Figlio, fra l'amore o la bontà e la persona dello Spirito Santo.
Vediamo alcuni esempi che ci mostrano queste caratteristiche.
Quando Mosè, di fronte al roveto ardente chiede a Dio qual è il suo nome, gli viene risposto: Io sono colui che sono!… Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi (Es 3,14), e nel libro della Genesi leggiamo: In principio Dio creò il cielo e la terra (Gn 1,1), da queste ultime parole si ricava che solo colui che ha la pienezza dell'essere è in grado di dare l'esistenza ad altre cose. In questi due esempi: Io-Sono Dio creò sono riferimenti alla persona del Padre.
Per quanto riguarda la persona del Figlio, nel vangelo di Giovanni leggiamo: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 1; 14). Sempre nello stesso vangelo Gesù dice di se stesso: Io sono la Verità, Io sono la luce del mondo (Gv 14, 6; 8, 12). Gesù è la Luce del mondo perché la sua sapienza illumina la nostra ignoranza; e Gesù è anche la Parola di Dio e la Verità di Dio che si manifesta a noi. Vediamo così che i termini Luce, Verità, Sapienza, Parola sono particolarmente legati alla seconda persona della Santissima Trinità.
Per quanto riguarda il legame dell'amore o della bontà con la persona della Spirito Santo, così troviamo scritto nel salmo: il tuo Spirito buono mi guidi in terra piana (Sal 142, 10), e San Paolo nella lettera ai Romani dichiara: la carità (o amore) di Dio è stata effusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) e nella lettera ai Galati così si esprime: il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà... (Gal 5,22). Gesù poi, nel vangelo di Giovanni parla dello Spirito Santo come Consolatore: se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre, lo Spirito di verità (Gv 14, 15-16) e più avanti: il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14, 26).
Riflesso della Trinità nelle cose che ci circondano
Visto come stanno le cose secondo l'insegnamento della Sacra Scrittura, illuminati da questo insegnamento, cerchiamo di vedere se la nostra intelligenza riesce a cogliere qualche riflesso, qualche similitudine con la Trinità nelle cose che ci circondano.
Se osserviamo il mondo delle cose materiali, vediamo che tutte le cose, per esistere, devono avere tre dimensioni: la larghezza, l'altezza e la profondità; se manca una sola di queste dimensioni la cosa non esiste; potrà esistere nella fantasia o su un foglio di carta ma non nella realtà. Se infatti disegniamo un tavolo su un foglio o su una lavagna, lo possiamo fare con due dimensioni soltanto, otterremo una rappresentazione del tavolo, ma non il tavolo vero e proprio, questo perché gli manca la terza dimensione, quella che gli darebbe la consistenza dell'esistenza. Le cose materiali che non si possono misurare in metri cubi non esistono.
Queste considerazioni potrebbero suggerirci qualche collegamento fra tutto ciò che esiste e la Trinità; tutto ciò che esiste è infatti opera della Trinità e ne porta impresso da qualche parte il sigillo. Possiamo pensare ancora ai colori; tutti i colori che noi vediamo sono composti da tre colori fondamentali: il rosso, il verde, il blu; miscelando opportunamente questi tre è possibile ottenere qualsiasi colore; è su questo principio che sono costruite le televisioni a colori.
Proviamo adesso a fare un esempio che sia un pò più somigliante alla comunione del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.
Supponiamo di entrare in una stanza e di vedere un macchinario strano pieno di bottoni, luci, monitor, bracci snodati e ogni altra complicazione della tecnica moderna. Se questa macchina esiste, e noi vediamo che esiste, la sua esistenza dipende dal concorso di tre cose:
1 - Qualcuno ha avuto la capacità e le risorse per costruirla.
2 - Qualcuno ne ha avuto in mente l'idea o il progetto.
3 - Qualcuno ha avuto la volontà di costruirla.
Se veniva a mancare una sola di queste tre condizioni la macchina non avrebbe potuto esistere. Così una donna potrebbe essere molto brava a fare la torta di mele, ma se gli capita di non avere voglia di prepararla, nessuno potrà mangiarla. Se manca la volontà niente può esistere.
Un bambino invece, potrebbe avere una gran voglia della torta di mele ed avere anche a disposizione gli ingredienti, ma se nella sua testa non ha l'idea di come si prepara dovrà restare a bocca asciutta. Se manca l'intelligenza niente può esistere.
Una donna povera invece potrebbe avere la volontà ed anche sapere come si prepara la torta, ma se non ha gli ingredienti non potrà farli spuntare dal nulla, ed anche in questo caso niente torta. Se manca chi può fornire gli elementi di base, niente può esistere.
Vediamo in questi esempi che la capacità o la possibilità di produrre qualche cosa ci suggerisce una similitudine con la persona del Padre, l'idea o il progetto della cosa ci suggerisce una similitudine con la persona del Figlio e la volontà di produrre la cosa suggerisce una similitudine con la persona dello Spirito Santo; la necessità poi che questi tre elementi si trovino insieme costituisce un richiamo all'unità di Dio.
Quello che vale per la torta o la macchina, vale anche per tutto ciò che esiste, anche per il granello di sabbia. Infatti, se il granello di sabbia esiste è perchè qualcuno era in grado di dargli l'esistenza, e questo è il Padre; l'esistenza del granello di sabbia ci dice anche che non solo qualcuno era in grado di farlo esistere, ma che qualcuno ha voluto la sua esistenza, e questo è lo Spirito Santo; la struttura del granello di sabbia poi, non è casuale, ma è una struttura che obbedisce a leggi ben precise, nel granello di sabbia infatti, ci sono una quantità enorme di atomi composti da nuclei ed elettroni che obbediscono nel loro moto e nei loro rapporti a leggi così complesse che gli scienziati moderni non riescono ancora a comprendere pienamente, ora, progettare la materia secondo una legge ben precisa è opera della sapienza del Figlio di Dio. Vediamo così che anche nel granello di sabbia è impresso il sigillo della Santissima Trinità.
Rapporto fra la bontà e la volontà
Abbiamo detto che fra lo Spirito Santo e la bontà o l'amore c'è un particolare legame, ma abbiamo anche visto che c'è un legame fra lo Spirito Santo e la volontà. Il rapporto fra le due cose è questo: una volontà, per sua natura, vuole ciò che è bene, o inversamente, il bene è ciò che una volontà vuole. Da questo segue che: lo Spirito Santo in Dio, vuole il bene o la bontà che è Dio stesso, all'esterno di Dio, ossia nei nostri confronti, lo Spirito Santo vuole il nostro bene e la nostra bontà.
Ora, il nostro bene e la nostra bontà dipendono dalla nostra adesione a Gesù Cristo, l'opera dello Spirito Santo nei nostri confronti sarà dunque quella di farci comprendere e amare Gesù, ecco perchè San Paolo nella lettera ai Corinzi afferma: nessuno può dire 'Gesù è Signore' se non sotto l'azione dello Spirito Santo (1Cor 12, 3).
Queste parole ci mostrano come l'azione dello Spirito Santo ed il nostro bene siano nel riconoscere Gesù come Signore, ma non possiamo riconoscere Gesù come Signore, e non possiamo amarLo, se non conosciamo e non comprendiamo sia il significato dei suoi insegnamenti, che delle opere che ha compiuto in nostro favore; allora, per aiutarci, Gesù promette: lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto … vi guiderà alla verità tutta intera, perchè… prenderà del mio e ve lo annunzierà (Gv 14, 26; 16, 13-14).
Comprendere e amare Gesù significa inoltre comprendere e amare il Padre, perchè Gesù è del Padre la rivelazione e l'immagine perfetta.
Condizioni per essere cristiani
Dall'opera dello Spirito Santo nei nostri confronti si ricava anche quali siano le condizioni per essere cristiani. Il cristiano è colui che riconosce Gesù come signore della sua vita; conoscere i suoi insegnamenti, le sue opere i suoi miracoli, non basta; uno potrebbe conoscere perfettamente tutti i punti della dottrina cattolica, ma se non decide di sottomettersi alla persona di Gesù se non acconsente a dare a Lui il potere di governare la sua vita, non può dirsi cristiano.
Essere cristiani, significa ancora accettare di compiere un certo cammino, cammino che ha per meta la verità tutta intera, questa è la meta a cui vuole guidarci lo Spirito Santo; giungere poi a questa meta significa raggiungere la pienezza della libertà e la pienezza della conoscenza di Gesù, Gesù ha detto infatti: Io sono la Verità… , la Verità vi farà liberi (Gv 14,6; 8,32).
Se questo è vero, ed è vero perchè sono parole di Gesù, dobbiamo concludere che: finchè la persona di Gesù non avrà preso pieno possesso del nostro cuore, ci saranno sempre in noi dei settori più o meno grandi di ignoranza o di menzogna, e saremo perciò condizionati in vario modo dalle mode e dalle mentalità dominanti.
Anche se uno si trovasse a vivere in un ambiente cristiano ed il suo comportamento venisse influenzato da tale ambiente, nella misura in cui la sua adesione dipende dalla comodità di seguire l'andamento generale, dalla preoccupazione di non creare tensioni o fratture, la sua adesione al cristianesimo non avrebbe un gran valore, non sarebbe un'adesione libera e convinta. Perchè la nostra adesione diventi tale, deve essere fondata nella verità, ossia purificata da ogni scoria di ipocrisia, di menzogna o di compromesso, ed è a questo che ci spinge e per questo opera lo Spirito di Verità (Gv 14, 17), e non ci lascerà tranquilli fino a quando non avrà compiuto il suo lavoro.
I confini del campo della conoscenza
La verità tutta intera a cui lo Spirito Santo vuole condurci potremmo immaginarla come un immenso campo quadrato i cui lati è come se rappresentassero i confini del campo della conoscenza: avremmo allora da un lato la verità tutta intera riguardo a Dio in se stesso, dall'altro lato la verità tutta intera riguardo a ciò che Dio compie fuori da se stesso, sul terzo lato la verità sull'uomo nei suoi rapporti con Dio , ed infine la verità sull'uomo nei suoi rapporti con i fratelli.
Fra le verità che riguardano l'uomo, ce ne sono alcune piacevoli altre un po' meno, fra quelle piacevoli c'è ad esempio la grandezza dell'amore di Dio per noi, la grandezza dell'uomo quando è unito a Dio, la bellezza del suo destino. Fra quelle meno piacevoli, troviamo invece l'immensa miseria e povertà dell'uomo lasciato a se stesso, le sue cattiverie, le sue meschinità, le resistenze ai richiami della grazia, e la più grave di tutte che è la possibilità reale di dire un no definitivo a Dio.
Lo Spirito che dice la verità sull'uomo è anche Spirito consolatore
Giungere alla verità tutta intera sull'uomo, significa allora lasciarsi guidare dallo Spirito alla consapevolezza delle possibilità di bene e delle possibilità di male che ci sono in noi. Dice infatti Gesù che lo Spirito Santo convincerà il mondo quanto a peccato… perchè non credono in me (Gv 16, 8-9). Il mondo di cui parla Gesù sono gli uomini che non lo hanno accolto e non hanno voluto credere in lui; ma anche in noi ci sono parti di mondo, ossia resistenze ai suoi insegnamenti, mancanze di fede, mancanze di docilità all'azione della grazia, offese alla legge dell'amore; in una parola: c'è in noi del peccato da cui dobbiamo venire purificati.
Ma lo Spirito che convince il mondo e noi di peccato, - pensiamo a Pietro che pieno di Spirito Santo dichiara: quel Gesù che voi avete inchiodato alla croce per mano di empi e avete ucciso…(At 2, 23-24) - è anche lo Spirito Consolatore, ossia colui che nei momenti di difficoltà, nei momenti duri, ci consola, incoraggia, ci consente di vedere oltre le apparenze, ci dona fedeltà e perseveranza, suscita e valorizza le capacità di bene che sono in noi.
Ma di quali difficoltà, di quali momenti duri stiamo parlando? Ebbene, dei momenti duri e delle difficoltà che un cammino di fede normalmente comporta. Infatti, non è sempre facile accogliere le parole e le esigenze di Gesù; pensiamo ad esempio all'esigenza di rinnegare noi stessi, prendere ogni giorno la nostra croce e andargli dietro; può essere duro accogliere le parole: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita (Gv 6, 53). Spesso può capitare di sentire il peso di andare contro corrente, può essere a volte faticoso amare come Lui ama, anche i nemici; e così via ...
Così lo Spirito Santo ci consola e ci conforta nelle difficoltà e nelle asprezze che incontriamo nel seguire Gesù.
Volendo fare un paragone e un riassunto potremmo dire: come lo Spirito Santo ha dato alla luce Gesù nel cuore e nel corpo di Maria, come Lo rende presente nel momento della consacrazione, così fa anche nascere Gesù nei nostri cuori, fa si che aderiamo a Lui e ai suoi insegnamenti con amore, e tutto ciò che si fa per amore, tutto ciò che si fa nell'amore perde a poco a poco ogni asprezza per lasciare il posto alla consolazione.
Condizioni necessarie per ricevere lo Spirito Santo
Rimane a questo punto da fare qualche riflessione sulle condizioni necessarie per ricevere lo Spirito Santo.
Nel Vangelo di Giovanni ne troviamo due: una abbastanza comprensibile, l'altra abbastanza misteriosa. Quella più comprensibile è questa: se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perchè rimanga con voi sempre (Gv 14, 15-16). Queste parole ci mostrano come la condizione fondamentale per ricevere il dono dello Spirito Santo sia quella di amare Gesù, questo amore però, non deve essere solo a parole, ma deve concretizzarsi nell'osservanza dei suoi comandamenti. Così, ogni volta che siamo attenti ai fratelli, ogni volta che potendolo li aiutiamo, ogni volta che lottiamo per vincere le tentazioni, ogni volta che ci impegniamo a crescere nella conoscenza e nell'amore di Dio, meritiamo che Gesù ottenga per noi dal Padre il dono dello Spirito Santo.
La condizione più misteriosa è invece questa: vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perchè, se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò (Gv 16, 7). La cosa strana è questa: perchè se Gesù non se ne va non può venire il Consolatore? La presenza dell'uno esclude forse la presenza dell'altro? Una prima risposta potrebbe essere questa: ogni grazia, Gesù l'ha meritata per noi con la sua passione e morte, così, anche il dono dello Spirito Santo non poteva venire a noi prima che Gesù, con il suo sacrificio avesse saldato ogni nostro debito nei confronti del Padre, ma con la sua morte, risurrezione, ed ascensione al cielo, Gesù avrebbe sottratto ai discepoli di allora e di adesso la sua presenza visibile.
E' tuttavia possibile tentare di trovare una ulteriore spiegazione alle parole di Gesù.
Quando Gesù era in mezzo ai suoi discepoli, questi avevano di Lui un'esperienza soprattutto fisica, percepivano cioè Gesù con i loro sensi corporei: Lo vedevano Lo sentivano Lo toccavano; per quanto bella, importante e necessaria fosse questa esperienza, non era tuttavia la più profonda che si potesse avere di Lui. L'esperienza a cui Gesù, mediante lo Spirito Santo, vuole condurre i suoi discepoli è l'esperienza di Lui vivente nei loro cuori, ma perché questo potesse avvenire, la sua presenza fisica, che era servita ad accendere l'amore, doveva venire loro sottratta, perché Colui che avevano amato all'esterno venisse cercato ed amato all'interno del loro cuore. Se avessero avuto sempre la presenza esterna di Gesù, non avrebbero mai cercato quella interna.
San Paolo che era giunto a questa meta poteva affermare: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). Non tutti possono dire la stessa cosa, ma tutti possiamo e dobbiamo orientarci sulla medesima via.
In questo cammino ci sono di conforto le parole di Gesù: se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui... il Consolatore, lo Spirito Santo ... vi insegnerà ogni cosa e ... vi guiderà alla verità tutta intera (Gv 14, 23-26; 16, 13); a Lui il compito di guidare, a noi quello di lasciarci guidare.
Qualcuno potrebbe pensare che noi non abbiamo il problema di staccarci dalla presenza esterna di Gesù, ma non è così. Ci sono dei momenti, nei quali ci troviamo in una situazione simile a quella in cui si sono trovati i discepoli quando si rattristavano perché Gesù aveva annunciato loro la sua dipartita.
Proviamo a fare un esempio. Quando in una parrocchia viene predicata una missione, coloro che si lasciano coinvolgere e vi partecipano attivamente, sperimentano il beneficio della grazia soprattutto attraverso l'opera dei missionari. Li si vede infatti predicare, visitare le famiglie e gli ammalati, li si vede pregare e cantare, si dialoga con loro; così, la grazia viene diffusa principalmente a causa di Gesù vivente in loro.
Tutto questo serve ad accendere o a far crescere in noi l'amore per Gesù, è un primo passo, il secondo è quello di far si che Gesù diventi vivente in noi come lo è in loro. Perché questo possa accadere i missionari devono partire. Gesù accenna forse a questo secondo momento quando, a chi gli chiedeva come mai i suoi discepoli non digiunavano così come facevano quelli di Giovanni, risponde: possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno (Mt 9, 15).
Quello che vale nel caso di una missione vale anche per esperienze simili: ad esempio una settimana di esercizi spirituali, la partecipazione ad un campo scuola o un pellegrinaggio, la lettura dei classici del cristianesimo o della vita di un santo... A chi accetta con docilità la volontà di Dio e la fatica di camminare con le proprie gambe senza il soccorso di questi aiuti esterni, il Signore promette il soccorso dello Spirito Santo, che ha il potere di far nascere, crescere e portare a maturità il nostro amore e la nostra unione con Gesù; a Lui, al Padre, e allo Spirito Santo, onore e gloria nei secoli.

Non c'è da perdere tempo


Non c'è da perdere tempo
di Donatella Bassanesi

Louise Bourgeois


Si può rispettare il tempo (prefissato), cioè attenersi al tempo. Si può andare a tempo, o essere fuori tempo. Si sottintende che il tempo è qualcosa che può essere seguito o no. Essere esterno o interno. Prendere tempo è allungare il tempo. E' soffermarsi per estenuare la controparte. Oppure per pensare prima di prendere una decisione, permette di riflettere e valutare i particolari, la decisione che dovrà uscirne viene rimandata perché è posta al vaglio del giudizio.
Ma c'è un significato di tempo che coincide con l'attimo. L'attimo si può cogliere. In questo senso prendere il tempo significa afferrarlo. È il caso colto. Va riferito allo scatto (si potrebbe rappresentare come scatto fotografico). Questo scatto, inteso radicalmente, è annientante. È il colpo mortale per il quale viene annullato il tempo dell'altro, annullato l'altro come soggetto, reso più che oggetto (letteralmente sub-iecto, gettato sotto, sottoposto), come chi non ha più il proprio tempo, ha perso il tempo. Tempo che si può perdere anche transitoriamente lasciando che scorra. Allora è come un lasciarsi andare, farsi scorrere, lasciare che le cose avvengano senza intervenire.
Infine. Il tempo si può compiere? Qualcuno pensa ad un certo momento che il proprio tempo si è compiuto? La propria vita è risolta?
Oppure c'è unicamente un passare? Il tempo passa e caratterizza il passante che dal tempo, comunque, è attraversato.
C'è un carattere di soggetto dei passanti. Individui che si qualificano perché stanno passando, ossia hanno ancora del tempo, e, insieme, si avviano a non-avere-più tempo: è il segno di appartenenza del soggetto (in quanto vivente-agente) al tempo, e del tempo al soggetto.
Ma il passante può perdere tempo (lasciare scorrere il tempo), o al contrario affrettarsi perché ha poco tempo.
Sono le azioni a qualificare gli individui (e ogni singolo originandole ne partecipa, ne è sempre e comunque responsabile), sono le azioni a provenire da un giudizio da cui deriva decisione e azione (il passante che ha davanti a sé molto o poco tempo potrebbe in un certo senso collegarsi al suo sguardo sul mondo, al giudizio che trae dalle osservazioni fatte). Così il tempo-azione che rende differenti gli individui, dà loro anche la possibilità di tracciare segni.
Per questo tempo-azione, anche quando si è raggiunto un grado molto alto di omologazione, anche quando scelte differenti sembrano impossibili perché tutto l'ambiente circostante ha già deciso preventivamente sul problema, esiste una possibilità, quella di "riesaminare le cose" e di "formarsi una propria opinione" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura (conferenza 1964), in "Micromega" n. 4, 1991, p. 204).
Si tratta di esercitare comunque un giudizio proprio. Che è "l'abitudine a convivere senza infingimenti con se stessi, a trovarsi in quel silenzioso colloquio (…) che da Socrate a Platone in poi siamo soliti chiamare 'pensiero'" (che è la base di ogni filosofare). È avere una coscienza che non funziona in modo automatico. Non essere tra quelli che dispongono "di una serie di regole apprese o innate che applichiamo quando occorre, cosicché ogni nuova esperienza o situazione è già giudicata a priori e non dobbiamo fare altro che seguire quanto già sapevamo in anticipo o abbiamo appreso", anche quando si avverte "una diffusa paura di giudicare" nella quale si avverte "il sospetto che in realtà nessuno agisce liberamente, e perciò si dubita che qualcuno possa mai essere veramente responsabile e rispondere dei suoi atti" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 204, 188).
La possibilità, collocandosi nell'area del giudizio (e della decisione), implica azione, e sta nel luogo di passaggio tra pensiero e atto, tra l'uno e l'altro e non corrisponde esattamente né all'uno né all'altro.
Conseguentemente, qualsiasi gesto si allontana subito dall'agente e si sposta sul destinatario che re-agendo lo modifica, e modificato lo allontana da sé con una successiva azione, una catena dove nulla rimane uguale ma che per essere catena conduce lontano. Nel percorso dei segni non si sa che cosa si venga formando, probabilmente rimane qualcosa che potrà riflettersi in un altro tempo che quel riflesso potrà riportare alla luce (rendendogli in un certo senso nascita). Perciò, essendo la possibilità (e inevitabilità) di incidere connessa al passaggio dall'uno all'altro, e la parte invisibile, che agisce sotterraneamente, nascosta che sopravvive al tempo (al presente).
Oggi assistiamo a guerre come spettatori, come mai prima inascoltati, ininfluenti (lo scandalo non supera la parola e viene assorbito facilmente dal successivo, che non accresce l'orrore lo riduce). Ma "ci vuole una certa qualità morale per ammettere che non si ha alcun potere", e d'altra parte "dipende proprio da questa ammissione della propria impotenza la possibilità di conservare un residuo di saldezza morale, e anche di potere, persino in (…) condizioni disperate" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 204-205).
Abbiamo 'visto' soldati italiani 'inviati in un'azione di pace', legittimati dalla macchina di cui sono parte, ammazzare da lontano, senza odio, (quasi 'in libera uscita', con 'licenza di uccidere') puntando bersagli (come pupazzi), come se si trattasse di un videogioco.
Parti e ingranaggi di una guerra che si vuole generale e di conquista (la teoria dell'impero), fondata su tecnologie sofisticate, in cui la caratteristica principale della precisione coincide con la precisione da lontano (il tiro al bersaglio), si attivano a distanza, ossia in quell'area, in quella certa particolare 'invisibilità' che 'legittima' la mossa 'automatica' che 'punta' all'annientamento del bersaglio, senza porsi tante domande circa la natura del bersaglio. L'apertura alla mossa automatica è data da una parola-chiave continuamente evocata, ma scarsamente credibile (visto l'evidenza che le guerre alimentano queste chiamate forme di terrorismo, la guerra dei poveri che non si adattano ad essere terra di conquista dell' 'impero').
Il rapporto tra soggetti, non solo estremo perché implica vita-morte, viene interrotto. Perché si configura come uno squilibrio di forze senza precedenti. Per la sperimentata inutilità delle parole. Per aver perso le parole un senso comune, il senso comune (il common sense) si rivela ininfluente. Ossia scompare ciò che "ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti noi", per il quale "i nostri cinque sensi, strettamente privati e 'soggettivi' e i dati da essi forniti, possono adattarsi a un mondo non soggettivo, ma 'oggettivo', che abbiamo in comune e dividiamo con altri" (H. Arendt, Between Past and Future, New York, 1961, tr. it. Tra passato e futuro, Firenze, 1970, p. 284). Mondo che è 'pubblico' "in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente", per cui "vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra (…), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo" (H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago, U.S.A., 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, p. 39).
Noi, in presenza di una società totale, omogenea, in un clima politico-sociale di scarso prestigio del sistema partitico che "premendo gli uomini uno contro l'altro (…) distrugge lo spazio fra di essi". (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 638).
È il peso di un potere totalitario, che si fonda sul rendere i soggetti rotelle di un ingranaggio, si mostra come una forma di potere che fa crollare le norme morali correnti, e dalle forme estremamente inumane e crudeli, a non poter essere ignorato.
Un modello di repressione totale si mimetizza con misure di carattere militare che producono assuefazione, si espandono, dilagano, sfidano il pensiero e il giudizio (l'azione).
Ma "il male non è mai 'radicale'" è "soltanto estremo", "non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso 'sfida' il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale" (H. Arendt).
Così mettersi dalla parte di un ordine che (colpendo prima di tutto i civili punta ad annientare la possibilità stessa di trasmissione da uno all'altro, in generale la comunicazione tra differenti), è una responsabilità non può essere "trasferita dagli uomini al sistema" creando la confusione (morale) di sentirsi innocenti avendo commesso dei crimini evitando la scomodità "di porsi delle questioni morali". (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 190, 193, 196). Perché "esiste la possibilità di 'non partecipazione', che sarà decisiva quando cominceremo a giudicare non il sistema, ma l'individuo, le sue scelte e le sue ragioni" (H. Arendt), a mostrare la disobbedienza civile non solo come forma di sottrazione, ma come segno di resistenza, forma di opposizione, un diritto politico che proviene da qualcosa che cresce spontaneamente, è un sentire insieme che si forma perché ciascuno ha messo in comune con altri il proprio sentire, perché è cresciuto un common sense, un 'senso in comune' - qualcosa che riguarda i sensi (i cinque sensi) e l'essere con altri, nel quale si trova un fattore soggettivo, imprevedibile, per il quale possiamo dire che "abbiamo palesemente cominciato a portare la nostra imprevedibilità in quel regno che avevamo sempre creduto sottoposto a leggi inesorabili" (H. Arendt, Between Past and Future, New York, 1961, tr. it. Tra passato e futuro, Firenze, 1970, pp. 95, 68).
Disobbedienza civile, che si ribella, non ubbidisce più perché nega il 'tacito assenso", è rifiutare l'appoggio, ed è "una delle tante varianti dell'azione non violenta", "una forma di resistenza del nostro secolo" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. p. 206). E per la sua natura di opinione che si forma nel confronto collettivo, proviene dal giudicare (che prelude alla decisione ed è primario nel politico), ed "è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro 'condividere il mondo con altri'" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. p. 284). Vuole cambiare il mondo, ma senza l'uso della violenza. È sfida collettiva alla società di massa. È la risposta forse più adeguata alla società di massa e ai suoi caratteri avvolgenti.
È nata "quando un numero consistente di cittadini ha raggiunto la convinzione che i normali canali del cambiamento non funzionano più e che le lamentele non saranno ascoltate né prese in considerazione, o che, all'opposto, il governo sia sul punto di cambiare e si sia imbarcato e insista in determinate iniziative la cui legalità e costituzionalità prestano il fianco a seri dubbi". "In altre parole, la disobbedienza civile si può sintonizzare sulla richiesta di un cambiamento necessario e auspicabile o sulla necessaria e auspicabile conservazione o ripristino dello status quo". E tuttavia chi pratica la disobbedienza civile è una minoranza, in genere in disaccordo con la maggioranza, e che tuttavia "agisce in nome e per il bene di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite sulla base di un dissenso di fondo, e non perché in quanto singolo desideri fare un'eccezione per se stesso e basta". (H. Arendt, Crises of the Republic - Lying in Politics, Civil Disobedience, On Violence, Thoughts on Politics and Revolution, 1969, tr. It. Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985, pp. 142, 140, 141).
Così in val di Susa abbiamo visti sindaci e tutta la popolazione presidiando la valle giorno e notte hanno esercitato la disobbedienza civile. Protestando hanno esercitato un diritto politico. Anzi, meglio, hanno esercitato il diritto alla politica, che è potere condiviso.
Si è interrotto il processo ripetitivo e cieco di sottomissione. L'interruzione è passata attraverso l'agire. Un'azione di massa che potremmo dire è il fenomeno rivoluzionario (H. Arendt, On Revolution, New York, 1965, tr it. Sulla Rivoluzione, Milano, 1983). Ossia quel modo, che appartiene alle società civili, di non obbedire a degli ordini quando non si hanno altri strumenti, in mancanza di regole che garantiscano la partecipazione politica alle decisioni. Sta dunque come garanzia di potere incidere in qualche modo nelle scelte, ed è un percorso verso la coincidenza del potere politico con la libertà (la relazione tra pari).

A TU PER TU CON LA PAURA


“A TU PER TU CON LA PAURA.
Un percorso d’amore attraverso le relazioni dalla co-dipendenza alla libertà”
di Krishnananda – URRA, Milano, 1997
Recensione a cura di SARA REMORINI


Krishnananda, ovvero Thomas Trobe, è l’autore di A tu per tu con la paura, un libro difficilmente
classificabile in un genere, perché scritto in una forma leggera e scorrevole come quella di un
romanzo di cui si vuol sapere come va a finire, eppure ricco di spunti di riflessione, esercizi ed
esperienze di vita come solo un saggio, una bibliografia o un testo specifico riescono a fare. A tu per
tu con la paura, infatti, è un testo che racchiude in sé tutti questi elementi. E’ stato scritto da
Krishnananda sulla base sia della sua personalissima esperienza di vita, sia sulla base della sua
esperienza di conduttore di gruppi di crescita, come discepolo di un maestro spirituale, Osho.
Entrambi questi due aspetti si ritrovano nel libro, che diventa così uno strumento, una guida,
attraverso la quale intraprendere un percorso di conoscenza profonda e di consapevolezza di noi
stessi. In particolare, questo testo si concentra su un metodo di esplorazione interiore, sviluppato
dall’autore stesso, che, attraverso le relazioni, permette di intraprendere il viaggio che dalla codipendenza porta alla vera libertà.
“Paura significa una cosa soltanto, abbandonare il conosciuto ed entrare nello sconosciuto.
Il coraggio è l’esatto opposto della paura”.
Con questa frase riportata da Osho, l’autore introduce il suo testo, e la condizione alla base di tutto
il lavoro da intraprendere: conoscere.
La maggior parte delle persone infatti, soprattutto del mondo occidentale, hanno, per i più svariati
motivi, uno stile di vita basato sul consumo, sulla velocità, sul negare a se stessi la possibilità di
avere paura. Il bambino interiore che è dentro ognuno di noi, si trova ad affrontare un mondo in cui
c’è spazio soltanto se si è bravi, o se ci si fa sentire urlando, o ancora in altri modi che ci permettano
di destare le attenzioni degli altri. Ma ciò che scaturisce da tutto questo, è un fortissimo bisogno di
compensare un amore che arriva soltanto a condizione; “ti amo, se”.
Dalla ricerca di soddisfare sempre queste condizioni per ricevere amore, o meglio, un surrogato di
amore, cresciamo con la paura di non poter ricevere abbastanza amore, o di perdere quello che
riceviamo. Il nostro bambino interiore, anche quando diventiamo adulti, è quindi un bambino
costantemente in panico.
L’attenta osservazione delle relazioni che viviamo, ci permette di prendere consapevolezza della
nostra vulnerabilità, di questo bambino interiore spaventato, di quali siano le sue paure e di come
1 cerchi di compensarle e non sentirle, attraverso relazioni che creano dipendenza; sia la dipendenza
che l’anti-dipendenza infatti, sono due facce della stessa medaglia, il cui punto di base è comunque
il non sapersi prendere cura di noi stessi, della nostra vulnerabilità, ma supplire a questa mancanza
di amore verso se stessi attraverso relazioni di dipendenza con gli altri.
Per liberarsi dalla co-dipendenza, Krishnananda traccia un percorso che nasce dalla conoscenza
della propria vulnerabilità, delle proprie ferite. Andare a conoscere da vicino la paura, diventa allora
non un modo per stare ancora più male, ma al contrario il primo passo per “guarire” quella
mancanza di amore che ci accompagna; stare a contatto con la paura è il primo passo per non
esserne più dominati, come invece ci succede in quasi tutti gli aspetti della vita.
Conoscendo la vergogna e lo shock che sono i due elementi fondamentali della paura, possiamo
imparare a vivere la vita in maniera più piena, totale, “giocando sempre sul filo delle nostre paure,
correndo il rischio di avere l’insicurezza e l’incertezza come compagne, e andare sempre più in
profondità nella meditazione, come una medicina per tutto ciò che ci affanna”.
Il rischio e la meditazione sono i due strumenti principali che l’autore individua ed utilizza, sia
personalmente, per confrontarsi con le sue paure, sia nel lavoro di conduttore di gruppi, perché
permettono di creare quello spazio interiore necessario a guardarsi dentro, senza giudizio, in ascolto
e a contatto con le ferite che ci sono, e che, se accolte e riconosciute, permettono di dischiudere
realmente il cuore all’amore, a quello vero, anziché ai surrogati di amore.
Quando andiamo in profondità dentro di noi, ad affrontare la paura ed il dolore, finalmente
ritroviamo noi stessi, ed è a questo punto che possiamo ricostruire la nostra fiducia nella vita e
lasciarci andare all’amore; osservare, sentire, lasciare che accada.
A tu per tu con la paura è un libro che, per chi è pronto all’ascolto, diventa un compagno di
viaggio, in cui poter ritrovare l’esperienza di un’altra persona che ha già percorso questa strada, e
che comunque la percorre di nuovo insieme a noi, perché non si finisce mai di conoscere la propria
vulnerabilità.
Gli esercizi che vi sono raccolti aiutano a prendere contatto gradualmente con le nostre ferite,
rispettando la paura che vi è alla base, accogliendo quel disperato bisogno di amore che ha mosso il
nostro bambino interiore fino a dove siamo oggi.

IL RISCHIO DI SPERARE

Il rischio di sperare
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Scritto da Daniela Turato   
Nel pomeriggio ci rechiamo a Panzano, nella valle del Chianti, a metà strada tra Firenze e Siena. Si percorre una stradina sterrata tra gli ulivi e si arriva al bellissimo eremo di San Pietro alle Stinche.
Qui, dal 1967, ha vissuto P.Giovanni Vannucci (1913-1984), servo di Maria, un ricercatore infaticabile di Dio che ha lottato per la riforma del suo ordine e per il recupero di una radicalità evangelica nella Chiesa. Uomo capace sempre di una lucida analisi dei problemi ecclesiali ed ecumenici, di rigore morale e con un'avversione innata per ogni forma di compromesso che lo porta per un po' di tempo in esilio dalla Diocesi di Firenze. Quando vi può rientrare, la scelta di ritirarsi ad una vita più semplice possibile è, per P.Giovanni, il tentativo di un ritorno alle origini.
 
«Il significato del monachesimo - scrive - è quello di ritrovare, mediante una radicale trasformazione personale, il fuoco ardente delle origini, di riporre in discussione tutti gli addomesticamenti ai quali il logorio del tempo e la pigrizia umana hanno sottoposto la parola evangelica. Il monaco è la persona che cerca la verità non legata, incondizionata, il silenzio che è al di là di tanti rumori e slogans e da cui zampilla la Parola creatrice. (...) Penso che il monachesimo debba muoversi sulla linea creatrice, riproponendo continuamente all'umanità quei modi di vita che la rendono più nobile e più grande, più degna della sua dignità e vocazione».
 
P.Giovanni detesta la banalità, la mediocrità, la superficialità, ma a chi cerca seriamente lascia la più grande libertà nella consapevolezza che “per arrivare a Dio ci sono tante vie quanti sono gli uomini”.
Anche la forma di vita comunitaria deve essere, per lui, un inno allo Spirito. Cerca perciò di creare
 
«una comunità dove a ciascuno sia concesso di portare a maturazione i propri doni e servire l'uomo con essi. Una vita comunitaria autentica può svilupparsi solo tra uomini liberi».
 
Uno dei modi attraverso cui, fin da subito, la comunità delle Stinche serve l'uomo, è attraverso l'accoglienza dei poveri. L'eremo non è una fuga dal mondo, ma un'assunzione piena di esso, per restituirlo trasfigurato.
All'eremo incontriamo P.Eliseo e P.Lorenzo Bonomi. E' quest'ultimo, compagno della prima ora di P.Giovanni, che ci parla di lui e del senso della loro scelta di vita: «La massificazione del nostro tempo - ci racconta - era uno dei grandi pericoli da cui fra' Giovanni metteva sempre in guardia. Vedeva nell'eremo non un luogo di isolamento, ma di rinascita, di rigenerazione».
Gli chiediamo: «Dopo 40 anni di vita vissuti all'eremo, se un giovane venisse qui e ti chiedesse: “Chi è il monaco?” cosa risponderesti?». P.Lorenzo abbassa gli occhi e, per qualche attimo, si raccoglie in silenzio. Poi con voce timida ma ferma, risponde: «Il monaco è una persona che si è messa alla ricerca dell'essenziale e che con grande distacco da sé, dall'ambizione di affermare sé stesso continua una via di preghiera per lavorare soprattutto su sé stesso, per trasformarsi, per togliere durezze, asperità, chiusure, ignoranze, paure che uno porta dentro di sé. Su questo aspetto insisteva soprattutto fra' Giovanni: il monaco è colui che cerca di diventare nuova creatura, dando il meglio di sé stesso e rimanendo aperto all'influsso della grazia. Ciò non è il risultato di una volontà propria, di un volontarismo, ma è l'incontro di due amori che si attirano. Il monaco è anche solo una persona che è disponibile ad ascoltare, ad incontrare, ad accogliere un dolore, una confidenza. Questo già giustificherebbe la nostra presenza».
 

Pra se pensar ....

Desespero anunciado

Desespero anunciado Para que essa agonia exorbitante? Parece que tudo vai se esvair O que se deve fazer? Viver recluso na pr...