Libertà interiore :Prigioniero di se stesso.

Libertà interiore :Prigioniero di se stesso.

A volte l’uomo si sente così, sente che potrebbe essere diverso, che la libertà dipende
esclusivamente da lui, ha la certezza di essere il carceriere, spesso spietato, di se
stesso, ma… i tentativi di liberarsi cadono sistematicamente nel vuoto.
A volte l’illusione di avercela fatta, o comunque di aver fatto dei passi in avanti, lo
scuote con un brivido di euforia… seguita da un’impotenza amara al riconoscimento
del primo fallimento.
Dominano la sfiducia e la rassegnazione, che, a volte, sfociano nel cinismo.
Esternamente le cose non vanno così male, anzi, all’occhio altrui, è giudicato anche
abile, fortunato, soddisfatto, “realizzato”… ma i conti con se stesso non tornano.
Prigioniero di sé, o meglio, delle proprie strutture di sopravvivenza.
Nella vita piccoli e grandi traumi, ferite emotive generano dolore, un dolore che a
volte è meno tollerabile di quello fisico e a cui si è impreparati.
Il bambino, automaticamente, e poi l’adulto dominato dal bambino interiore, per
difendersi dal dolore, per sopravvivere, mettono in atto delle strategie a cui non
riescono più a rinunciare: rimuove, nega, proietta, evita, se la prende con sé, col
proprio corpo, con gli altri, col mondo, col destino, con Dio, si anestetizza, controlla
ossessivamente, si identifica nel perfezionismo, vive nel passato o nel futuro, cerca
disperatamente il piacere riempiendo il vuoto con sostanze, delega la propria
autonomia ad altri.
Le difese sono diventate prigioni; come uscirne?
Solitamente all’inizio c’è un “fai da te”, una messa in atto di tentativi di soluzione. Se
l’impresa riesce, con notevole incremento di autostima, si accede, normalmente, a
una migliore qualità di vita.
Quando invece i tentativi non solo non risolvono, ma contribuiscono a mantenere o
peggiorare il problema, chi non si rassegna a un riduttivo livello d sopravvivenza
chiede aiuto agli esperti del settore: psicologi e affini. In questo campo le proposte
sono diversificate e ognuna ha una propria validità, corroborata da anni di studi,
ricerca, sperimentazione, pratica professionale e dà un contributo alla soluzione del
problema.
Le perplessità e la sfiducia però affiorano e si intensificano quando il lavoro
psicologico non dà i risultati sperati.
Le reazioni del cliente possono essere le più varie, per citarne alcune: auto
colpevolizzazione e senso di inadeguatezza o accusa al professionista, al metodo o
alla categoria di incapacità, rifiuto a voler proseguire il cammino evolutivo o ricerca
affannosa di un terapeuta o un metodo migliori… “quello giusto”. 

PRIGIONIERO DI ME STESSO

Dialoghi a una voce (quando non hai nessuno a cui rivolgerli)


Mi barcameno fra dubbi e indecisioni, marubbi e incomprensioni, sono la rovina, la fine.
Se ho qualcosa da dire, la tengo dentro me e risolvo altrimenti. Fingo di mordere ma poi non denti, e allora ingoio e sto zitto. Compongo questo testo ma non sono io a parlare. Ti conosco meglio di quanto tu non creda.
Voglio esser non banale, e nel farlo finisco per essere il solito borghesuccio, scheletri nell'armadio e polvere sotto il tappeto, e poi ti accuso dei miei fallimenti di comunicazione. Emorragie interne e ti urlo contro perché non te ne sei mai accorta. Ti penetro per meglio comprenderti. Perché tu possa meglio comprenderti.
Rancore, rimorso, vendetta, sensi di colpa: si vedi che di me non conosci che la buccia, e non la polpa. Poteva essere diverso, ma mi sono lasciato abbagliare dal carisma e dalle mie insicurezze, e ho riversato su di te le mie frustrazioni. Capirò tutto questo in tempo. Sarà tardi. Troppo tardi. Ho zanne che non mi appartengono, e altari.Ho paura. Paura che possa ricominciare tutto, e non vedo che nei tuoi sforzi dovresti essere tu quello che dovrebbe avere più paura. Non lo voglio vedere, perché io sono il centro. E per me lo sei. Ho forze che non conosci, e strategie poco chiare per sconvolgerti e cambiarti.Ho cercato rifugio in fretta, ché non riesco a viver da solo. E fingo al momento di essere, ma incrinature nella maschera rivelano. Lontananza, appartenenza son i magli che su di me si abbattono. Corteggiandoti, ma non lo ammetto, ti torturo. Sarò una tortura anch'io, ma solo per salvarti.Ti sogno e poi "oh, non era che un sogno, un balbettio notturno della mia mente". Ma è quello che non ammetto che mi consuma, a guisa di goccia su roccia. Potessi capire al più presto, eviteresti il sacrificio. Ma è così che andrà. È così che deve andare. E tu nega, nega. Nega e annega. Menti a me e a te. Nega ciò che vuoi. Come al solito, verrò in tuo soccorso. Ma non ti piacerà.

Verità e libertà tra teologia e filosofia

Verità e libertà tra teologia e filosofia

 Verità e libertà tra teologia e filosofiaMassimo Cacciari La verità e la libertà sono quei termini per i quali si potrebbero ripetere
le parole di Agostino sul tempo: "Finché nessuno ci chiede cosa significhino, lo sappiamo, quando dobbiamo rispondere
o dimostrare il loro significato immediatamente ci sentiamo perduti". Cominciamo dal termine libertà. Come può la libertà
armonizzarsi con la verità, o - in termini diversi, ma per dire la stessa cosa - come può la verità liberare ? La verità,
metafisicamente, filosoficamente, è all'opposto un costringere. La grande tradizione metafisica europea e occidentale, a
partire dai greci, sta di fronte a questo ostacolo, a questo problema. La vita teoretica specula, contempla il pienamente
disvelato, la piena disvelatezza, aletheia, e a quella e di fronte a quella non ha alcuna scelta, deve dire di sì. Non ha
alcuna scelta. Questa tradizione va dai greci, attraverso grandi correnti, attraverso lo stoicismo, fino ai fondatori della
stessa filosofia moderna, fino a Spinoza. Intelligere Deum è in fondo sinonimo di intelligere necessitatem. Il saggio è
colui che sa il necessario, il pienamente disvelato. E lo segue volentieri. Ama questa necessità che ha conosciuto. La
filosofia dice questo, ma dice anche altro, dice che noi non possiamo dimostrare il nostro essere liberi, che il nostro
essere liberi è idea, è noumeno, qualcosa di pensato, ma che non potrà mai essere un fenomeno che noi riusciamo a
mostrare. Noi possiamo mostrare il nostro assentire al necessario, ad una legge, alla natura, naturale necessità. Ma non
possiamo dimostrare in nessun modo la nostra libertà. Quando diciamo che siamo liberi, se ci riflettiamo un po', noi
intendiamo che siamo liberi di fare qualcosa. E così crediamo di aver dimostrato la nostra libertà, ma filosoficamente
questa non è affatto una dimostrazione, perché, per poter dimostrare di essere effettivamente liberi, come ricordava
Schopenhauer, noi dovremmo dimostrare di poter volere ciò che vogliamo, non di poter fare ciò che vogliamo. Per
dimostrare di essere liberi non basta dimostrare che possiamo fare ciò che vogliamo. Vi può essere allora forse una
definizione di libertà ? Io credo che quella più radicale filosoficamente sia quella che è stata data da Spinoza, ma è
assolutamente inaccettabile filosoficamente, nel senso che è totalmente autocontraddittoria. Vi ricordate la definizione di
Spinoza? Ve la cito per essere precisi. "Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si
determina ad agire da sé sola. Ora va da sé che sulla base di questa radicale definizione di Spinoza nessun uomo
potrebbe mai dirsi libero. Perché nessun uomo esiste "per necessità della sola sua natura" e nessun uomo "si determina
ad agire da sé solo". Perché è pacifico, e davvero questo sì dimostrabile, che noi agiamo in un contesto di infinite
concause. Quindi la libertà dell'Etica di Spinoza poi è davvero assolutamente quella antica stoica. Cioè la libertà del saggio,
la libertà appunto di "intelligere Deum, sive necessitatem". Perciò noi filosoficamente - come vari autori hanno detto, magari
protestando, ne cito due soli, per tanti versi antitetici, ma che si incontrano in questo, Nietzsche e Chestov, un grande
lettore di Dostoevskij - ci troviamo di fronte a quella che potremmo dire una concezione totalitaria della verità. Vi è una
sorta, appunto diceva Nietzsche, di totalitarismo della verità. La verità obbliga, la verità costringe. Aletheia, piena
disvelatezza, che accechi o no pone la sua legge e soltanto il servo può ignorarla, soltanto l'insipiente può ignorarla e
credersi dunque libero rispetto alla sua necessità. Ma possiamo filosoficamente - perché vorrei questa sera restare
rigorosamente nell'ambito della discorsività filosofica - concepire, non direi un oltrepassamento - perché sarei ridicolo -
ma una interrogazione, una via che interroghi e interroghi radicalmente questo totalitarismo della verità senza accettare la
prospettiva che Bruno vi ha ricordato, totalmente paradossale, totalmente folle per la filosofia? Vi è anche, almeno,
un'interrogazione filosofica che può eccedere il totalitarismo della verità? Questo è un po' il tema di tutta la mia ricerca. E'
difficile dimostrare una verità come incondizionata apertura. Se riuscissimo a mostrare come - in tutto ciò che viene, in ogni
apparire, in ogni fenomeno, anche nel senso lontano - ciò che è decisivo non è il suo apparire, ma il suo essere in
costante divenire; se riusciamo a mostrare discorsivamente come in tutto ciò che diciamo non è in gioco soltanto una
adeguatio dell'intelletto alla cosa, ma è in gioco una dimensione che significa, indica - proprio secondo il moto eracliteo -
ciò che la cosa deve ancora essere, cioè l'ad-venire della cosa (in qualche modo quella dimensione che risuonava ancora
nel termine greco phisis, che è tradotto bene, e non male come dice Heidegger, dal latino "natura", perché è un
participio futuro: il nascimento, come traduce bene Colli, è traduzione bella dal latino "natura" , che non è l'insieme delle
cose date, ma è l'insieme delle forze costantemente generanti della natura): allora riusciremo a mostrare la verità come
incondizionata apertura. Se riusciamo a mostrare, nella visione del fenomeno, ciò che ancora deve venire. Nel tono della
parola ciò che ancora deve essere pronunciato. E badate che questo elemento "linguistico" si incontra perfettamente con
la semantica moderna: su ciò che è dato riuscire a comprendere, nell'esistenza di ciò che è dato riuscire a comprendere,
proprio nel suo ex-sistere, nell'aletheia, nella disvelatezza, nella illatenza del suo esistere, comprendere insieme, nello
stesso tempo, la latenza da cui proviene tutto ciò che esiste. Vi è un'attività in base alla quale si stabiliscono dei sensi e
questa attività, volenti o nolenti, resta nella costrizione del rapporto tra linguaggio e significato, tra parola e significato, tra
intelletto e cosa. Vi è un'altra attività, che è stata tra virgolette dimenticata in quell'accezione di verità a cui prima mi
richiamavo, ma che probabilmente accompagna ogni determinazione di significati, ogni determinazione di senso e che è
un dare senso e non un porre senso. E' un'attività che pone, che definisce ed è un'attività che dà, che dona significati e che
sta nell'ambito di quell'idea che sono ben lungi dal poter comprendere meglio, dal poter dire meglio di verità come
incondizionatezza dell'apertura. La parola, nel momento stesso in cui cerca di dire, indica, allude, anela, scopre, inventa.
E' il tema anche della grande Scolastica, che riguarda anche la teologia da questo punto di vista, perlomeno la teologia
cristiana, perché altro discorso sarebbe per la teologia propriamente detta di altre tradizioni (ebraica e islamica). Allora
prima di tutto il senso di quest'attività è dare senso, non definirlo semplicemente: nel momento stesso in cui lo definisci,
certo, altrimenti cadi in debolismi ermeneutici, in vaghi discorsi di erranze tutte letterarie. Comprendere che nello stesso
sforzo di definire vi è l'inventio, che nessuna definizione è senza inventio e d'altra parte nessuna inventio può esistere
come autentica inventio se non si sposa problematicamente alla definizione. Ebbene, io credo che vi sia in tutta la storia
della Chiesa, di questo grande paradosso, di questo grande mistero, vi sia costantemente la tentazione, o se volete
anche più della tentazione, proprio il peccato - perché trattasi di Chiesa militans, trattasi di Chiesa in itinere, non può
trattarsi di Chiesa trionfale, e non potrebbe essere diversamente perché è appunto la Chiesa in hoc saeculo e quindi, se
http://admin.pantarei.co.uk - Pantarei.co.uk Powered by Mambo Generated: 26 June, 2013, 04:23davvero esiste in hoc saeculo, deve compromettersi con il secolo stesso (compromettersi nel senso pieno del termine,
non nel senso di mezzucci politici) -, e cioè: declinare aletheia nel senso dell'illatenza, della disvelatezza cui occorre
obbedire, non nel senso dell'ascolto che diceva prima Bruno, ma nel senso di obbedire alla necessità. Questa è la
tentazione e, a volte, il peccato, e cioè: io sono martire, testimone di una cosa, di una presenza illatente, perfettamente
evidente, trionfalmente evidente, cui bisogna dire di sì, cui bisogna credere, cui è necessario credere. Allora veramente
secondo me si tradisce la quintessenza di quell'atto di fede che per me è nel Vangelo, dove la pistis è costantemente
contraddetta, controcantata, dove non vi è nessuno che ci dice "buono", dove non vi è nessuno che ci dice
semplicemente che crede, senza testimoniare nello stesso tempo la sua apistia, la sua estrema difficoltà a credere o
addirittura la sua mancanza di fede, nel momento stesso che dice la propria fede, in hoc saeculo, in quell'estremo
realismo anche linguistico che è proprio del messaggio evangelico. Ecco, io credo che la Chiesa corra costantemente il
rischio, e a mio avviso non potrebbe altrimenti, di presentarsi come ciò che pone senso, non come ciò che dona senso, che
dà senso, che apre a nuovi sensi. Ecco, questa è la mia domanda, la mia interrogazione fondamentale anche al modo in
cui a volte viene testimoniato il messaggio, e concludo dicendo in altri termini quanto dicevo nel mio primo intervento:
sarebbe a mio avviso umanamente essenziale in questo cavallo di secolo che la Chiesa con estrema chiarezza - ma mi
rendo conto che è impossibile che ciò avvenga, però se non si spera l'impossibile non si realizzerà nemmeno il possibile - si
presentasse così: sarebbe essenziale, sarebbe di straordinaria importanza per tutti, credenti, non credenti, laici, cattolici,
per tutte le altre religioni, sarebbe ecumenicamente di enorme rilievo che la Chiesa presentasse così la propria verità, in
termini esplicitamente contraddittori, non nel senso che la negano quell'altra definizione, ma in termini vitalmente
contraddittori, dialogici veri - non di quel dialogo da "abbracciamoci tutti" un po' stucchevole e dolciastro - contraddittori
rispetto all'aletheia come disvelatezza; sarebbe essenziale che la Chiesa testimoniasse che la sua aletheia non è quella,
è semmai follia rispetto a quella, è un'aletheia che mantiene la lethe al suo interno come la sua fede mantiene e
custodisce la stessa apistia al suo interno. E da questo punto di vista allora sì il dialogo con l'apistia diventerebbe
davvero decisivo, cioè non con un astrattamente separato da sé, ma con qualche cosa, con qualcuno che hai all'interno
di te stesso, non con un altro come estraneo, ma con l'altro che tu stesso sei a te stesso, proprio agostinianamente.
Questo aprirebbe prospettive culturali, proprio nel senso antropologico, a mio avviso straordinarie, e sarebbe il vero
contesto in cui potrebbe avvenire quella conversione ermeneutica di cui parlava Bruno, anche tra filosofia e teologia.
Non credo che la Chiesa abbia la possibilità di fare ciò, non credo abbia la possibilità di questo amore, perché questa
misura di amore è precisamente l'impossibile; questa misura di amore (che è una misura di libertà, diceva giustamente
Bruno) può essere vista, può essere compresa, ma è l'impossibile in hoc saeculo. 

TOLLERANZA E SOCIETA’ MULTICULTURALE

TOLLERANZA E SOCIETA’ MULTICULTURALE

 
 
L’idea di tolleranza, che oggi è oggetto di innumerevoli dibattiti e pubblicazioni e che sembra diventata una delle idee-chiave per leggere, interpretare e indirizzare le scelte morali e politiche di una società che tende sempre più ad assumere la caratteristica della multiculturalità, in realtà si è presentata spesso alla ribalta nelle riflessioni di uomini di cultura delle epoche passate, anche se il termine «tolleranza» è stato a volte sostituito da altre espressioni, e anche se l’ambito della sua applicazione pratica è cambiato, allargandosi a contesti sempre più vari e complessi.
La tolleranza è stata ed è di volta in volta indicata come la risposta, da una parte all’esigenza di difendere la propria identità e, dall’altra, a quella di garantire la convivenza dei membri di una comunità attraverso il reciproco riconoscimento di una pari dignità per ognuno di essi. La tolleranza è in questo senso l’antidoto a ciò che Rousseau chiama, riferendosi agli individui, «amor proprio», ossia la vanagloria, la pienezza di sé dell’individuo che non tollera di essere offuscato dalle idee e dalle azioni degli altri individui. «Il compito che si pone ogni momento a ogni uomo», scrive Gadamer, «è davvero gigantesco: si tratta di tenere sotto controllo i propri personali preconcetti, la sfera egocentrica degli impulsi e degli interessi privati, in modo che l’Altro non diventi o non resti invisibile».[1]
Ma quale di queste due polarità, individualità e comunità, è prioritaria? E’ più pressante, nel mondo in cui viviamo, l’esigenza di difendere le diversità, oppure l’esigenza della convivenza civile basata sul presupposto della solidarietà? Gadamer definisce la solidarietà come «quell’accordo irriflesso e spontaneo sulla base del quale è possibile prendere decisioni comuni e valide per tutti nella sfera morale, sociale e politica»,[2] che impongono di andare alla ricerca nell’Altro e nel Diverso di quel che vi è di comune. E’ forse questa la via che, ponendo le due esigenze sullo stesso piano, permette di conciliarle?
 
Tolleranza e pregiudizi.
 
L’intolleranza può essere legata sia a pregiudizi sia a giudizi di valore. Certo, ciò che separa gli uni dagli altri può essere una linea sottile, ma la sfera del pregiudizio tende comunque a prescindere dal confronto tra valori che possono confliggere fra di loro nella vita sociale. Essa è l’atteggiamento di coloro che disprezzano qualsiasi contesto culturale diverso dal proprio e qualsiasi differenza esteriore (colore della pelle, modo di vestire, di parlare, ecc.), indipendentemente da considerazioni di merito o demerito, di giustizia o ingiustizia, di adeguatezza o inadeguatezza alla convivenza nell’ambito di una comunità.
Naturalmente spesso i pregiudizi sfociano in conflitti di valore laddove il disprezzo si tramuta in concreta emarginazione, ma alla base di essi non c’è un atteggiamento razionale (considero ciò giusto o sbagliato), bensì c’è un atto di volontà basato sul «gradimento» (accetto o rifiuto di approvare).
Ci sono armi contro il pregiudizio? Esso sembrerebbe un atteggiamento difficile da sradicare, se ha condizionato il pensiero di grandi uomini che non si possono certo tacciare di sciocca ignoranza. Voltaire — che pure ha dato un importante contributo all’analisi dell’idea di tolleranza[3] — sostenne che «se l’intelligenza dei Negri non è di un’altra specie rispetto al nostro intelletto, è però di molto inferiore».[4] E così anche David Hume, che scrisse: «Propendo a ritenere che i Negri, e in generale tutte le altre specie di uomini… siano naturalmente inferiori ai bianchi».[5] E ancora Thomas Jefferson riteneva che «i Negri — siano essi una razza originariamente distinta, oppure che si è differenziata con il tempo e le circostanze — siano inferiori ai bianchi nella costituzione del corpo come dello spirito».[6]
Certo, essi non avevano a disposizione le conoscenze che l’uso di strumenti di ricerca sempre più sofisticati — in particolare, nel campo delle cosiddette differenze razziali, la genetica — mettono a disposizione dei contemporanei,[7] ma in realtà non esiste un rapporto necessario e quasi automatico tra cammino della conoscenza ed eliminazione dei pregiudizi. Questi col tempo diventano qualcosa di intimo e pervadono le nostre relazioni, diventando una specie di rifugio, una cittadella murata in difesa dei propri interessi individuali. E nel conflitto fra conoscenza e interessi spesso vince la tendenza a privilegiare i secondi.
Questo rapporto tra conoscenza e tolleranza ha perciò bisogno di intermediari che svolgano la loro azione nel tempo: da una parte la coercizione per quanto riguarda le conseguenze sociali negative del pregiudizio, e dall’altra l’educazione che condiziona le intime convinzioni di ognuno.
Ma l’educazione alla tolleranza implica il vivere insieme, implica la contiguità che permette la conoscenza reciproca. Per questo è del tutto sbagliata la tendenza, che sta prendendo piede in alcune società multiculturali e multietniche, verso la valorizzazione delle differenze attraverso la «separazione». E’ quello che sta succedendo, ad esempio, nella più variegata delle società del mondo moderno, la società americana, in cui al melting pot si contrappone una frammentazione che privilegia l’identità e i diritti dei gruppi etnici, in cui il dogma multietnico viene abbandonato, e il separatismo si sostituisce all’integrazione.[8] Ma la separazione e la competizione tra gruppi non generano che mania di persecuzione e sospetto reciproco, mentre la cosiddetta politically correctness diventa un simbolo di tolleranza e rispetto del tutto ambiguo.
 
Tolleranza e diversi giudizi di valore.
 
Per quanto riguarda il rapporto fra giudizi di valore e tolleranza, il discorso è più complesso. Il concetto di tolleranza, in questo caso, è collegato alla disapprovazione e avversione verso qualcosa che si considera sbagliato, dato che è incoerente parlare di tolleranza nei confronti di ciò che si approva.[9] In un certo senso è una sorta di indulgenza. «Indulgente, scrive Kant, è chi non odia gli altri per i loro errori. Chi è indulgente è tollerante».[10] Ma la tolleranza nei confronti di qualcosa che si considera sbagliato presenta delle ambiguità, o perlomeno pone dei problemi.
Che rapporto si instaura fra tollerante e tollerato? La tolleranza è inevitabilmente collegata al relativismo, e al limite allo scetticismo (la verità non esiste: esistono tante verità), oppure può diventare una premessa per avvicinarsi alla formulazione di verità condivise? E’ giusto che chi crede in una certa idea o in certi valori accetti passivamente, tollerandole, le conseguenze concrete di azioni motivate da idee o valori che non condivide? La tolleranza è una scelta «di principio» o «funzionale», ossia è un bene in sé o è legata a considerazioni di ordine pubblico e di pace sociale (coesione dello Stato)?
Per rispondere a queste domande si può iniziare collegando il concetto di tolleranza a quello di pari dignità delle persone e delle idee. Uno dei presupposti fondamentali della tolleranza è appunto l’uguale dignità di tutti gli esseri umani, che perciò meritano rispetto in quanto tali, in quanto cioè possono essere kantianamente definiti agenti razionali, potenzialmente liberi e capaci di formare e definire la propria identità.
Ma la definizione della propria identità non è un fatto privato: essa avviene attraverso il dialogo continuo con gli altri ed implica perciò il riconoscimento. Mentre il rispetto è una forma di «astensione» dal giudizio ed ha come presupposto l’uguaglianza, il riconoscimento è un atteggiamento attivo, che spinge verso la valorizzazione della differenza. Proprio quest’ultima è diventata il punto di forza di quei movimenti contro le discriminazioni che caratterizzano le società pluralistiche e multiculturali del nostro tempo. Le risposte che la cultura e la politica liberal-democratica hanno dato al problema della libertà e dell’uguaglianza sono messe in discussione sulla base della considerazione che vanno garantite non solo le libertà fondamentali (di pensiero, di parola, di stampa, ecc.) e il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (istruzione, reddito, salute, ecc.), ma vanno garantite anche le specificità culturali di individui e gruppi che non si riconoscono nella cultura dominante. La virtù della tolleranza non dovrebbe dunque consistere solo nel «lasciar vivere» o nell’«astenersi dall’esercitare il proprio potere nei confronti delle opinioni ed azioni altrui, anche se sono diverse dalle proprie per aspetti rilevanti ed anche se le si disapprova dal punto di vista morale»,[11] ma anche nel «creare delle opportunità per gli altri e fare di tutto per aiutarli a mantenere e coltivare le loro diversità».[12]
L’accento posto sulle differenze e sulla loro difesa, come già ricordato, è ciò che sta mettendo in crisi la società americana. La politica del riconoscimento si è legata all’esigenza di autoaffermazione etnica contro la nazionalizzazione culturale, alla celebrazione dell’etnia mediante lo sviluppo di una letteratura o di una storia compensatoria ispirata a risentimento o orgoglio di gruppo e basata spesso su falsificazioni,[13] all’organizzazione di forme di sostegno alla comunità etnica (scuole apposite, centri di riunione esclusivi, ecc.), e alla rivendicazione di un ruolo attivo dello Stato in difesa dei diritti delle minoranze oltre che di quelli individuali, attraverso la concessione di opportunità a cui la maggioranza non dovrebbe avere diritto.[14]
Ma è giusto andare in questa direzione? In realtà, sia nella storia americana che in quella europea, è stata proprio l’accentuazione e l’esasperazione delle differenze che ha portato all’intolleranza. Se il pluralismo si associa alla creazione di forme di segregazione, il positivo si tramuta in negativo, ciò che viene considerato una forma fondamentale di civiltà diventa strumento di inciviltà. Le varie forme di tribalismo che si stanno manifestando nel mondo (a livello etnico, religioso o politico), basate sull’esigenza di partecipazione ad emozioni comuni, esclusive, rischiano di immergerci in un’atmosfera di fanatismo.[15]
L’idea di tolleranza portata fino a questo limite ha come premessa una sorta di scetticismo, o relativismo, per cui ciò che conta per ogni uomo e per ogni gruppo è «la sua verità» (le sue idee, la sua cultura, le sue scelte morali e di vita), che non può e non deve essere influenzata né condizionata dalla «verità degli altri». E a sua volta questa premessa si fonda sulla paura dell’uniformità, dell’omogeneizzazione, che sono viste, oggi in particolar modo, come pericoli reali legati alla società della «comunicazione globale». Se la tolleranza per la diversità avesse la funzione di promuovere la scoperta della verità, ciò porterà alla fine, si teme, alla scomparsa della diversità, cioè all’unanimità.[16]
Contro la necessità di pervenire a dei punti fermi unanimemente condivisi si è espressa, ad esempio, Hannah Arendt. Essa difende la diversità in se stessa e subordina la verità al pluralismo che permette un discorso senza fine fra gli uomini: l’idea tradizionale di verità, sostiene, minaccia la pluralità di prospettive in continuo mutamento e la libera scelta delle opinioni a cui aderire, e sostituisce l’infinita conversazione della politica con la singola voce di tutti gli uomini razionali.[17] Perciò la tolleranza va difesa in quanto sta alla base della possibilità di discussione e di dibattito, e ciò costituisce un valore superiore alla verità.
Porre l’accento sulla diversità può dunque condurre a due sbocchi: il fanatismo o ilpluralismo come valore prioritario, e dunque fine a se stesso, e ambedue, seppure in modi diversi, hanno un fondamento relativistico.
Ma esiste un terzo sbocco che, non assolutizzando la diversità, la recupera come elemento di un processo, un processo senza fine, ma non senza punti fermi — e questi sono quei valori la cui presenza o assenza condiziona la possibilità del dialogo infinito fra le diversità. La tolleranza, in questo caso, si basa sul concetto di fallibilismo. «Il fatto che gli esseri umani siano fallibili, scrive Popper, vuol dire che tutti possiamo sbagliare… Ma affermare questo equivale a dire che la verità esiste, e che ci sono azioni che sono moralmente giuste, o quasi giuste. Il fallibilismo certo implica che la verità e il bene non sono a portata di mano, e che dovremmo essere sempre pronti a scoprire che ci siamo sbagliati». Nel confronto fra opinioni diverse bisogna partire da questo presupposto: «Può darsi che io abbia torto e tu abbia ragione». Se coloro che si confrontano «sottoscrivono questa affermazione, ciò è sufficiente a garantire reciproca tolleranza… Ma se si vuole evitare il relativismo si deve andare oltre. Dovrebbero dire: ‘Può darsi che io abbia torto e tu abbia ragione; e se discutiamo il problema razionalmente può darsi che possiamo correggere i nostri errori e può darsi che tutti e due possiamo avvicinarci di più alla verità…’».[18]
Sulla base degli stessi presupposti si fondano le affermazioni di John Stuart Mill sulla tolleranza, che egli ritiene un mezzo per un fine, la verità. «Man mano che l’umanità avanza, scrive, il numero delle dottrine che non sono più messe in discussione o in dubbio aumenterà costantemente; e il benessere dell’umanità può quasi essere misurato dal numero e dall’importanza delle verità che sono diventate incontestabili…».[19] La tolleranza nei confronti delle opinioni diverse, per Mill, è dunque strumentale ed è in funzione di un punto d’arrivo, raggiunto il quale in un certo senso essa non ha più alcun ruolo: se il fine della tolleranza è la formazione di opinioni consolidate, una volta che queste hanno preso forma devono avere lo stesso valore per tutti.
Che non si possa fare a meno di punti fermi è dimostrato anche dalla constatazione che tutti coloro che si sono occupati del problema della tolleranza concordano sul fatto che la sua messa in pratica impone dei limiti. Non si può, ad esempio, tollerare l’intolleranza, non si può essere tolleranti verso la manipolazione dei fatti, non è tollerabile la negazione dell’uguaglianza dei diritti, ecc.
La tolleranza è dunque la premessa per il confronto e il dialogo, ma nello stesso tempo è subordinata a quei valori negando i quali viene negata essa stessa, valori che sono progressivamente emersi nel corso della storia e che, sia pure non pienamente e universalmente realizzati, tendono a diventare il fondamento del vivere in comune.
I diversi gruppi etnici e religiosi presenti nelle società multiculturali che fanno della diversità la loro bandiera, e che chiedono quel riconoscimento in senso forte che implica la concessione di diritti particolari da parte dello Stato, creano invece una contrapposizione fra diritti particolari e valori comuni, a cui pure si appellano. Le richieste di trattamento differenziato da parte dei franco-canadesi del Québec sono un esempio. Questo ha adottato diverse leggi relative alla difesa della lingua francese: una stabilisce che né i francofoni né gli immigrati possono iscrivere i propri figli a scuole di lingua inglese, un’altra impone l’uso del francese sul lavoro nelle imprese con più di cinquanta dipendenti. In nome della sopravvivenza collettiva di un gruppo il governo del Québec ha cioè imposto ai cittadini residenti delle restrizioni che da una parte sono contrarie ai contenuti della Carta canadese dei diritti adottata nel 1982, dall’altra ledono il diritto di tutti i cittadini di fare scelte libere e autonome relative ad alcuni aspetti della loro vita.[20]
 
Cittadinanza e appartenenza.
 
La logica della società multiculturale sembra generare una sorta di «scollatura… tracittadinanza e appartenenza. L’idea democratica moderna di un’appartenenza interamente risolta nella cittadinanza, scrive Giacomo Marramao, non è più in grado di fronteggiare le sfide della società contemporanea. Sappiamo ormai che vi sono dei bisogni diidentificazione simbolica che non possono trovare mai piena realizzazione nella sfera della cittadinanza… La virtualità di rispondere alla domanda sociale con un ampliamento degli orizzonti… della cittadinanza è data fino a quando si ha a che fare con conflitti politici (sui diritti di uguaglianza), oppure con conflitti economici e sociali (rivendicazioni di interessi o distatus). Ma non si dà più nel momento in cui entra in campo il conflitto etico, il conflitto di valori».[21]
Ora, se è vero che stiamo assistendo un po’ ovunque nel mondo alla manifestazione di questo fenomeno di frammentazione basata sul proliferare di identità «blindate», ciò che bisogna chiedersi è se la tolleranza verso la «proliferazione meccanica della logica identitaria» può spingersi fino all’accettazione passiva della disgregazione, che inevitabilmente sfocia nel conflitto, oppure se è possibile trovare un punto di equilibrio che risolva la contrapposizione fra cittadinanza e appartenenza e renda pensabile la cittadinanza multiculturale.
Il potenziale conflitto fra cittadinanza e appartenenza intesa come identificazione simbolica è stato risolto dall’ideologia nazionale, attraverso l’imposizione di una cultura unitaria e attraverso simboli mitici che hanno portato alla coincidenza della cittadinanza con l’appartenenza a una comunità nazionale resa e considerata omogenea in modo fittizio.
Ma proprio la crisi degli Stati nazionali legata alla nuova realtà che si sta profilando, al progressivo aumento dell’interdipendenza, contiene il germe di una nuova soluzione più libertaria di quel conflitto. Lo contiene in senso dialettico, perché proprio questa crisi e l’interdipendenza sono fra i fattori scatenanti del processo di disgregazione in nome della tolleranza come riconoscimento delle diversità, e ciò rappresenta la negazione della sintesi fra cittadinanza e appartenenza. Ma nello stesso tempo quei due fattori pongono una domanda a cui non si può fare a meno di dare una risposta: la domanda di quali istituzioni alternative debbano affermarsi proprio per governare la crisi e affrontare l’interdipendenza senza scatenare fenomeni di disgregazione.
Ciò che sta avvenendo in Europa, se essa riuscirà a portare a compimento la sua unificazione federale, è la risposta concreta che gli Stati europei danno a quella domanda e l’indicazione della via che dovrà percorrere il mondo intero, se non si vorrà rassegnarsi a subire le conseguenze dell’ingovernabilità dei problemi globali. Ma nello stesso tempo questa risposta conterrà un elemento politicamente e simbolicamente nuovo: il superamento della cittadinanza esclusiva.
Paradossalmente, la reazione ai pericoli di disgregazione della più avanzata società multiculturale, la società americana, può portare verso il nazionalismo. Lo stesso Arthur Schlesinger così risponde alla crisi del melting pot: «La storia dà il senso dell’identità. Non dobbiamo pensare che i nostri valori siano in assoluto i migliori, ma essi sono ancorati alla nostra esperienza nazionale (i documenti, gli eroi, le tradizioni, ecc.). Chi ha una storia diversa avrà valori diversi. Ma noi crediamo che i nostri siano i migliori per noi». L’antidoto contro le minacce alla coesione dello Stato è, pur con il dovuto apprezzamento per le diversità, l’esaltazione della «nazionalità americana».[22]
Al contrario in Europa la risposta ai pericoli di disgregazione sarà la formazione di uno Stato federale multinazionale, i cui cittadini potranno diventare i soggetti di una vera «rivoluzione culturale». Se — come è pensabile, vista la variegata struttura della società europea — con la Federazione europea nascerà un nuovo modello di Stato federale, più articolato rispetto al modello americano e strutturato in vari livelli di governo che diano voce e potere alle varie comunità territoriali (locali, regionali, statali e federali), ciò significherà la fine della cittadinanza esclusiva e la nascita di un nuovo concetto di identità.
La ricerca di identità «blindate» è legata al fatto che il senso di appartenenza viene collegato al bisogno di identificazione simbolica che non si ritiene soddisfatto nella sfera della cittadinanza proprio perché questa fino ad ora ha avuto il carattere dell’esclusività. Questo carattere ha comportato un ruolo pervasivo dello Stato al di là della sfera pubblica — la sfera dei diritti e doveri fondamentali dei cittadini sanciti nelle costituzioni democratiche — per invadere la sfera privata delle scelte etico-culturali. Il superamento della cittadinanza esclusiva porta alla separazione delle due sfere, abolendo tendenzialmente l’ingerenza statuale nella seconda, il cui controllo è strettamente legato all’esigenza della interiorizzazione da parte dei cittadini dell’ideologia nazionale. E ciò permetterà di invertire la tendenza all’esasperata e spesso intollerante richiesta di riconoscimento delle differenze che è una delle cause della rinascita del nuovo nazionalismo tribale che si sta sviluppando nelle nostre società.
Nello stesso tempo il modello di democrazia federale basato su diversi livelli di governo può innescare un processo virtuoso di recupero della democrazia in termini sostanziali, creando le condizioni per una società più aperta e tollerante.
I conflitti di valore nella sfera pubblica, così come i conflitti di interesse, possono essere composti senza fratture definitive e contrapposizioni non costruttive se istituzioni adeguate non solo garantiscono a tutti, attraverso la libertà e l’uguaglianza, la soddisfazione dei «bisogni primari», ma anche favoriscono il dialogo continuo come strumento per risolvere i conflitti. La tolleranza, in un quadro istituzionale adeguato, non appare più come «gentile concessione» di chi crede di avere aprioristicamente ragione nei confronti di chi ha opinioni diverse, ma come la condizione naturale di una società che ammette e dà voce a «dissensi morali rispettabili».[23] Ciò è possibile se ogni individuo, indipendentemente dal contesto culturale a cui si sente legato e dalle sue scelte di vita, può partecipare efficacemente, insieme agli altri individui, alle scelte che riguardano il mondo che egli condivide con loro. La tolleranza, in definitiva, può progressivamente diventare una pratica spontanea — e sfuggire così al pericolo di rivolgersi contro se stessa attraverso le cosiddette «politiche della differenza» — solo se gli individui-cittadini si sentiranno pienamente partecipi di progetti comuni. Se uno degli elementi essenziali delle rivendicazioni dei neocomunitari è la «ricerca compensativa di calore comunitario contro il ‘grande freddo’ delle istituzioni puramente procedurali delle nostre democrazie»,[24] si tratta di opporsi all’attuale tendenza a definire la comunità come il «luogo» dell’identità etnica, religiosa, culturale e di definirla invece in termini territoriali, ossia come il luogo in cui gli individui, con le loro differenze, convivono e progettano insieme il loro futuro attraverso «il discorso e l’azione».[25]
L’emergere e il diffondersi della società multiculturale è in un certo senso un fenonleno «necessario», nel senso che, essendo legato all’evoluzione del modo di produrre, ad esso non si può opporsi: ciò che possiamo fare è, da una parte accertare i problemi che pone e dall’altra cercare di padroneggiarli.
Abbiamo visto come di fronte ai nuovi problemi posti dal multiculturalismo, fra cui quello della tolleranza, spesso emergono reazioni scomposte, più legate alla paura, a sentimenti immediati, che a una ricerca di nuovi criteri di giudizio e quindi di nuove soluzioni. L’affermazione di un nuovo concetto di «cittadinanza», legato alla creazione di istituzioni federali articolate in vari livelli territoriali e di governo, può essere la soluzione per evitare di assolutizzare il bisogno di identificazione simbolica, che può portare a un fanatismo intollerante, per cercare una sintesi fra cittadinanza e appartenenza ed affermare la cittadinanza multiculturale.
 
Nicoletta Mosconi


[1] Hans Georg Gadamer, Das Erbe Europas, Francoforte, Suhrkamp Verlag, 1989 (trad. it., L’eredità dell’Europa, Torino, Einaudi, 1991, p. 21).
[2] Ibidem, p. 97.
[3] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Milano, Feltrinelli, 1995.
[4] Paolo Rossi, Naufragi senza spettatore, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 114.
[5] Ibidem, p. 114.
[6] Ibidem, p. 115.
[7] Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995.
[8] Arthur M. Schlesinger, The disuniting of America, New York-London, W.W. Norton & Company, p. 17.
[9] Susan Mendus (a cura di), Justifying Toleration, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 3 e segg.
[10] Immanuel Kant, Benjamin Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano, Mondadori, 1996, p. 256.
[11] Susan Mendus e David Edwards (a cura di), On Toleration, Oxford, Clarendon Press, 1987 (trad. it., Saggi sulla tolleranza, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 6).
[12] Ibidem, p. 21.
[13] Arthur M. Schlesinger, op. cit., p. 55.
[14] Michael Walzer, What It Means to be an American. Essays on the Arnerican Experience, New York, Marsilio, 1992 (trad. it., Che cosa significa essere americani, Venezia, Marsilio, 1992).
[15] Michel Maffesoli, Le culture comunitarie, Roma, Il Mondo 3 Edizioni, 1996.
[16] Susan Mendus, Justifying Toleration, cit., p. 177.
[17] Susan Mendus, ibidem, pp. 183-84.
[18] Susan Mendus e David Edwards, Saggi sulla tolleranza, cit., p. 37.
[19] John Stuart Mill, On Liberty, citato in Susan Mendus, Justifying Toleration, cit., p. 92.
[20] Charles Taylor, Multiculturalism and the Politics of Recognition, Princeton, Princeton University Press, 1992 (trad. it., Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, Anabasi, 1993, p. 76).
[21] Giacomo Marramao, Zone di confine, Roma, Il Mondo 3 Edizioni, 1996, p. 46.
[22] Arthur M. Schlesinger, op. cit., pp. 137-38.
[23] Charles Taylor, Multiculturalismo, cit., pp. 36 e segg.
[24] Giacomo Marramao, op. cit., p. 40.
[25] Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago-London, University of Chicago Press, 1958 (trad. it., Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1994).

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