L’ANIMA E IL SUO DESTINO SECONDO VITO MANCUSO



 DI: CORRADO MARUCCI S.I.


Nel suo ultimo libro Vito Mancuso1, docente di Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, espone quello che si può definire un moderno trattato di escatologia. In vari riferimenti sparsi nel corso dell’esposizione, egli concepisce il proprio lavoro come «costruzione di una “teologia laica”, nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia». Questo «discorso» si sviluppa nel testo, dopo la prefazione del card. Martini, nella quale egli afferma, fra l’altro, «di sentire parecchie discordanze su diversi punti», e un capitolo introduttivo sulle coordinate speculative dell’Autore di circa 50 pagine, in nove capitoli che trattano dell’esistenza dell’anima, della sua origine e immortalità, della salvezza dell’anima, della morte e del giudizio, della terna paradiso/inferno/purgatorio e infine di parusia e giudizio universale. Chiudono una Conclusione e l’indice degli autori citati.
Data la mole degli argomenti trattati e lo stile enciclopedico  scelto dall’Autore, è praticamente impossibile esporre sinteticamente e commentare le convinzioni, le conclusioni, le proposte, le tirate ironiche e gli stimoli disseminati nel testo2. Ci limitiamo qui all’essenziale, col rischio di trascurare cose che possono essere sembrate essenziali all’Autore.
Introduzione
Nel lungo capitolo introduttivo egli espone uno dopo l’altro i cardini di ciò che intende sviluppare in seguito. In realtà si tratta di un insieme di convinzioni e princìpi in parte decisamente ovvi (quanto alla necessità di aderire alla verità, chi ha mai ammesso che si possa argomentare a partire da falsità o addirittura accettarle?), in parte bisognosi di molti distinguo (sembrerebbe che per l’Autore l’ultima istanza di ogni argomentazione sia l’accordo o almeno il non disaccordo con le scienze positive e ciò è ovviamente discutibile, poiché queste sono in un continuo processo autocorrettivo e spesso non prive di preconcetti e indebite estrapolazioni). Mancuso, seguendo una moda terminologica più del gergo politico e giornalistico che non filosofico, dichiara che il suo referente è la «coscienza laica», intendendo con ciò «la ricerca della verità in sé e per sé» (p. 9). Sarebbe difficile trovare qualche pensatore, dai presocratici a oggi, che abbia un differente concetto di verità: il problema è come si può arrivare alla certezza di aver raggiunto tale verità. Ma forse, come emerge da alcune allusioni, egli è convinto che chi aderisce alla fede cristiana lo faccia tacitando le difficoltà razionali o addirittura senza troppo pensare. L’Autore riassume poi diversi dati e acquisizioni scientifiche relative alla materia, alla sua equivalenza con l’energia, all’evoluzione, che egli ritiene necessario integrare con il concetto di relazione.
Diverse volte, in questo capitolo e anche nei seguenti, Mancuso dice di voler essere un pensatore cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli, in un’opera che sostanzialmente vorrebbe essere di teologia, tra le premesse argomentative non faccia alcun riferimento alla metodologia dell’esegesi biblica e a quella propria della teologia cattolica. Sulle conseguenze di questa mancanza torneremo in seguito. Le ultime pagine del primo capitolo possono qui essere tralasciate sia perché difficilmente riassumibili, sia perché le necessarie critiche saranno più evidenti nelle loro conseguenze sui singoli argomenti trattati in seguito.
L’«anima spirituale»
Nei capitoli seguenti l’Autore espone le sue convinzioni sugli argomenti classici relativi all’anima e al suo destino finale. Innanzitutto, sempre attingendo ad autori del passato a partire dagli antichi egizi fino al recente Catechismo della Chiesa Cattolica, egli si dichiara apertis verbis per l’esistenza dell’anima spirituale nell’uomo arrivato a maturità (?). Va detto tuttavia che con il termine «anima spirituale» egli intende molte cose, ci pare, più legate a concetti come energia, relazione, libertà, creatività e così via, legati cioè più alla materia, o ai sensi o ancora conseguenze della presenza nell’uomo della dimensione spirituale. Molte osservazioni, derivanti dai più disparati settori della vita, sono condivisibili, altre oscure dal punto di vista concettuale. Quello che però stupisce è la completa assenza di argomenti veri e propri che dimostrino l’esistenza di quella realtà che in tutta la tradizione cristiana si è chiamata anima o spirito. Ovviamente ogni dimostrazione vale all’interno di un sistema logico predefinito; ma poiché, come si è detto, Mancuso non dichiara le sue coordinate logiche, non è possibile giudicarne le asserzioni. È ovvio che la pura assimilazione alle scienze fisico-chimiche contemporanee non potrà mai essere sufficiente allo scopo, poiché il loro oggetto formale sono i dati  materiali sensibili e osservabili.
Nella sistemazione classica del cattolicesimo la dimostrazione dell’esistenza dell’anima spirituale era demandata alla filosofia, quale ancilla theologiae. Dall’ovvia esistenza nell’uomo dell’intellezione e del conseguente giudizio, che sono operazioni non materiali, ma spirituali, si deduceva la necessità di un principio immateriale nell’uomo, poiché la materia non è capace di operazioni non materiali. Il supporto logico-argomentativo era dato dall’ontologia aristotelico-tomista. Quanto invece alle argomentazioni di Mancuso, non è difficile immaginare che un lettore non digiuno di logica e di filosofia le trovi vaghe e poetiche3. Quanto poi al momento dell’infusione dell’anima razionale nel corpo, l’Autore, in buona sostanza, pare far sua la teoria delle formae viales, che la filosofia scolastica aveva ereditato da Aristotele, come conseguenza dell’assioma che ogni forma ha bisogno di una materia adeguatamente preparata a riceverla. Tale teoria però, oltre che per difficoltà teoretiche, è stata abbandonata dalla Chiesa cattolica, perché le operazioni vitali, vegetative e sensibili, per sostenere le quali si invocava la presenza nel feto di un’anima soltanto vegetativa e in seguito soltanto sensibile, possono essere tranquillamente attribuite fin dall’inizio all’(unica) anima razionale, come si fa in seguito nell’esistenza umana matura.
A nostro parere l’applicazione dell’assioma sopra ricordato non conduce ad alcuna conclusione sicura, poiché la sproporzione ontologica dell’anima spirituale è totale nei confronti di qualsiasi tipo di materia; non è questione cioè di gradi. Su questo tema stupisce infine il silenzio di Mancuso in merito a tutta quella serie ormai ricchissima di studi sulla fisiologia del cervello per appurare se vi siano operazioni umane non spiegabili con le sole proprietà neurologiche4. Notiamo infine che diverse volte5 nel corso dell’esposizione Mancuso attribuisce alla dottrina ecclesiale l’idea che per essa l’anima sia una sostanza, cosa assolutamente erronea: il famoso asserto per cui l’anima è forma (substantialis) corporis significa che essa non è una sostanza bensì un principium entis; la sostanza è la persona umana6.
L’origine dell’anima
Il testo poi presenta tutto un capitolo (30 pagine) sul problema dell’origine dell’anima. Nonostante il tentativo di distanziarsi anche in questo punto dalle concezioni tradizionali (di cui egli cita tutta una serie), Mancuso in buona sostanza concorda con la dottrina ecclesiale praticamente in tutto, fatta eccezione per l’affermazione che l’anima umana viene creata direttamente da Dio. In proposito va ricordato che tale dottrina non è mai stata definita come dogma di fede; i manuali le danno la qualifica di theologice certa. L’Autore lo ammette, benché non spieghi esattamente il significato di questa nota theologica7. La conseguenza di questo fatto è che la dottrina contraria (in questo caso che i genitori trasmettono l’anima al concepito) è accettabile laddove si riesca a dimostrare che le argomentazioni razionali che conducono alla necessità del suo contrario non tengono.
Orbene non ci pare che questo riesca all’Autore, ma che anzi quelle classiche siano ancora valide8, aggiungendo comunque che l’asserto per cui le anime sono create direttamente da Dio ha anche la funzione di sottolineare che ciò che nasce (con una fenomenologia molto varia e addirittura a volte casuale) in realtà è sempre qualcosa di per sé direttamente voluto da Dio, destinato a dialogare con lui e che quindi non rappresenta mai un progetto solamente storico o fattuale, ma eterno. Mancuso sfrutta qui una sua ricorrente convinzione che lo spirito, in quanto energia, possa derivare dalla materia e contesta l’opposizione classica tra spirito e materia, per cui l’una è il contrario dell’altra. Non è il caso di ribadire questa concezione che, una volta capiti i termini, è ovvia; il problema è che qui, e per tutto il libro, l’Autore opera con un concetto di spirito che non è quello di cui parla tutta la tradizione cristiana. Affermare infatti che esso è energia e appellarsi alla fisica einsteiniana è un’idea perlomeno bizzarra9. Come può una realtà estesa, misurabile e presente anche nelle cose e negli animali, essere spirituale?
D’altronde Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione al pensiero evolutivo e a Teilhard de Chardin. Citando poi come esempio il noto manuale di Flick e Alszeghy, egli sostiene che nell’argomentazione tradizionale ci sarebbe un circolo vizioso; ma perlomeno nell’edizione finale di tale manuale10 tutto ciò è affatto assente: l’immortalità dell’anima è detta naturale fin dall’inizio, anche se ovviamente voluta da Dio e quindi, dicono i due dogmatici, può essere creata soltanto da Dio. Foriera di gravi conseguenze etiche è l’affermazione che «non c’è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l’anima razionale-spirituale» (p. 107): è chiaro che Mancuso confonde la facoltà con il suo esercizio11.
Immortalità e salvezza dell’anima
Il quarto capitolo, di 40 pagine, è dedicato all’immortalità dell’anima. Affastellando citazioni e bons mots (a volte poco pertinenti) di pensatori e scienziati dell’antichità, del Medioevo e moderni, Mancuso arriva alla conclusione che per l’immortalità dell’anima non esistono prove (p. 123 e passim). Senza analizzare i motivi del dogma, egli si sofferma sull’esistenza o meno di un Dio personale e su problemi derivanti dalla domanda spontanea di perennità innata nell’uomo. La definizione, ribadita in tutto il corso del testo, dell’anima come energia impedisce di capire il senso delle dimostrazioni classiche e delle numerose conferme bibliche concernenti l’immortalità dello spirito umano. Non è qui il caso di contestare singole affermazioni del testo, che procede veramente a ruota libera12.
L’Autore ritiene necessario dedicare poi il quinto capitolo, di 37 pagine, al tema della salvezza dell’anima. Innanzitutto dichiara che tutti i contenuti veicolati dal dogma del peccato originale13 devono essere riformulati o abbandonati; concretamente Mancuso ritiene corretto parlare soltanto di «peccato del mondo». Prescindendo praticamente dalla teologia paolina, ma ricorrendo a Platone, Anassimandro e Bonhoeffer egli ritiene di dover «rifondare» fede e tradizioni (p. 168). Cercando allora di rispondere alla domanda se dobbiamo ancora essere salvati e se sì, da cosa e come, l’Autore spiega «da noi stessi e dalla vita disordinata (nel senso di sottoposta all’entropia)» (p. 173). Quanto al come, egli proclama che «non è la religione che salva: […] non sono i sacramenti, la Messa, i rosari, i pellegrinaggi, le indulgenze, la Bibbia» (p. 176), e oltre «non c’è alcuna esigenza di credere nella sua [cioè di Gesù] resurrezione dai morti per essere salvi» (p. 183). È ovvio che siamo agli antipodi di ciò che Paolo afferma in 1 Cor 15 e in molti altri passi.
Il sesto capitolo, di 18 pagine, è dedicato a «Morte e giudizio». Anche qui Mancuso, sulla base di rudimentali richiami biblici (tra i quali manca il testo principale Gn 2,17; 3,19) definisce i dati tradizionali come contraddittori (cfr p. 189);  quanto alla valenza della morte egli, in buona sostanza, va catalogato tra coloro che negano la reale problematicità della morte degli umani14, posizione difforme dalla dogmatica cattolica. Sul criterio del giudizio dopo la morte, Mancuso invece di ricordare la classica formula paolina della fides caritate formata preferisce appoggiarsi a Platone, Marc’Aurelio, Pascal, Kant e Simone Weil.
I quattro capitoli seguenti, più sintetici dei precedenti, riguardano paradiso, inferno, purgatorio, e parusia e giudizio universale. Anche per il paradiso, la visione beatifica e la risurrezione dei corpi l’Autore compie una completa «demitizzazione», sempre argomentando da alcuni suoi assiomi non ulteriormente discussi quali l’identità tra spirito e materia, la concezione dell’anima come energia e l’eterna validità delle leggi fisiche. Egli stabilisce perciò che la distinzione tra immortalità dell’anima e risurrezione dei corpi è «del tutto infondata» (p. 223), che la concezione per cui le anime dei defunti vivono «un letargo simile alla morte» sarebbe «oggi maggioritaria tra i teologi e ancor più tra i biblisti» (p. 214)15 e che «la convinzione che nessun intelletto creato può vedere l’essenza di Dio [è] la peggiore delle eresie» (p. 219), che «la credenza della risurrezione della carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica» (p. 225) e così via. Non è qui possibile commentare questa congerie di affermazioni anche perché le argomentazioni ora sono oscure, ora soltanto accennate sulla base di citazioni, di convinzioni e frasi di pensatori di ogni epoca. Ci limitiamo a segnalare che, in contesto escatologico, il termine «eternità» ha due significati assai diversi, soltanto analogici: se si parla di quella di Dio, essa implica l’assenza di ogni successione e di ogni distinzione tra essenza e operazioni16, mentre per gli altri esseri spirituali il termine implica la perennità de iure, non solo de facto, ma non esclude la successione temporale e questo risolve alcune antinomie che Mancuso crede di rintracciare nella dogmatica cattolica17. Nonostante il profluvio di autori citati, pare che Mancuso non conosca la letteratura collegata al concetto di «risurrezione nella morte», che è la più recente querelle di carattere escatologico in campo cattolico18.
Venendo poi a parlare dell’inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (ben 35 pagine) alla confutazione del dogma dell’eternità dello stesso. Anche qui, saltando da Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria affermazione per cui «parlare di eternità dell’Inferno è una contraddizione assoluta» (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi: dopo aver a lungo esposto il pensiero di P. Florenskij, egli resta, per così dire, anceps, dopo aver fatto un peana dell’antinomia annunciata. Il lettore noterà la mancanza di analisi delle numerose affermazioni del Nuovo Testamento, con l’introduzione di errori teologici anche non lievi19. Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell’apocatastasi, oltre che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all’appello di Dio.
Dopo aver definito il purgatorio «una salutare invenzione», Mancuso afferma che l’unica modalità che gli appare «razionalmente legittima» è di concentrarlo nell’istante della morte (p. 279). La parusia infine è da lui definita come maggiormente bisognosa di essere ripensata (cfr p. 289). In definitiva il testo sostiene che non ci sarà alcun ritorno del Gesù glorioso; le frasi corrispondenti del Nuovo Testamento sono errori di Gesù e di Paolo. Per Mancuso è semplice anche spiegare perché «Dio non è mai intervenuto direttamente nella storia» e perché «non tutta la bibbia è parola di Dio»!
Conclusione
Se per teologia si intende la riflessione dell’intelletto umano illuminato dalla fede sulla Sacra Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il nostro giudizio complessivo su questa opera non può che essere negativo. L’assenza quasi totale di una teologia biblica20 e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l’Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale21.
In realtà non è facile neanche elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso dell’esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche. Nel contesto di notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica contemporanea, questo testo ci sembra che contribuisca ad aumentare tale confusione. L’Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò, dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è facile, poiché  si può confutare  soltanto ciò che è organicamente formulato al di dentro di un preciso assetto epistemologico.



1   Cfr V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Milano, Cortina, 2007, XVI-323, € 19,80. Le pagine indicate nel testo si riferiscono a questo volume.
2   È spiacevole che in un’opera teologica ci siano titoli come «il deposito di zio Paperone» (p. 37) e «Vino e tortellini» (p. 40). Ancora a p. 73 il matrimonio è detto «legame chimico totale della libertà». Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.

3   Alquanto sorprendente invece è la convinzione dell’Autore secondo la quale le attività più chiaramente spirituali dell’uomo sono «scienza, arte, musica, pensiero» (p. 64). Anche in seguito si sostiene che la musica è la massima espressione spirituale dell’uomo.

4   Su questo settore di ricerca cfr, tra i molti, H. Goller, «Hirnforschung und Menschenbild», in Stimmen der Zeit 218 (2000) 579-594 (con abbondante bibliografia) e H. Schöndorf, «Gehirn - Bewußtsein - Geist», in Herder-Korrespondenz 53 (1999) 264-267.
5   Cfr, ad esempio, pp. 53, 77, 93, 97.
6   Ricordiamo en passant che anche per la cosiddetta anima separata san Tommaso precisa che essa non è persona umana (cfr Summa Th. 1, 29, 1 ad 5m; Pot 9, 2 ad 14m; Summa contra Gentiles 4, 79).
7   Tale qualifica significa che un asserto è necessariamente connesso mediante operazioni logiche a un dogma di fede, non, come spiega Mancuso, «che i pronunciamenti del Magistero sono stati tali da rendere tale dottrina patrimonio sicuro della fede cattolica» (p. 85).

8   Senza stare qui a ripeterle rimandiamo all’esposizione di M. Flick - Z. Alszeghy, Il Creatore, l’inizio della salvezza, Firenze, Lef, 19612, 251 s.
9   Con la solita mescolanza dei generi letterari egli afferma che «per avere una reale esperienza spirituale […] non è necessario […] andare in Chiesa, isolarsi in un monastero» (p. 87).
10   Cfr M. Flick - Z. Alszeghy, Il Creatore…, cit., 183 ss; lo stesso vale per J. Donat, Psychologia, Oeniponte, 19327, 409 ss.
11   Più o meno le stesse cose vengono ripetute dall’Autore oltre, alle pp. 136 ss.

12   Ci limitiamo a notare che non è vero che con le note prove tomistiche dell’esistenza di Dio si approda sempre a un essere impersonale, poiché almeno la quinta prova termina a un essere intelligente, che non può essere che personale. Il termine riferito a Dio di universitatis principium, che secondo Mancuso a motivo del neutro proverebbe che si tratta di qualcosa di impersonale (p. 129), non viene usato da Tommaso nel contesto delle cinque prove, ma una volta sola in Summa contra Gentiles 1, 1, 3.
13   Quanto al rapporto tra peccato dei progenitori e peccato originale originato, notiamo che Mancuso pare ignorare il noto saggio di K. Rahner  «Theologisches zum Monogenismus», in Schriften zur Theologie 1 (Einsiedeln, 19604) 253-322. Più avanti (p. 287), con la solita eccedenza verbale, egli stabilirà che «il peccato originale [è] un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente»!

14   Anche su questo tema avrebbe apportato chiarezza la conoscenza dell’ottimo saggio di K. Rahner, Zur Theologie des Todes (QD 2), Freiburg i.Br., 19613.
15   Non si citano nomi concreti, ma l’affermazione, per quanto concerne teologi e biblisti cattolici, è completamente erronea (vedi anche i testi da noi citati sotto in nota 18). In realtà fu Lutero a parlare per primo di un Seelenschlaf.
16   Il che è perfettamente espresso nella nota definizione di Boezio: interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio. L’erronea concezione che Mancuso ha dell’eternità dello spirito creato ritorna spesso (cfr soprattutto p. 313).

17   Segnaliamo in nota che la traduzione del p. Centi di assimilamur con «somiglianza» in Summa contra Gentiles III, 51 (p. 218) è corretta (l’italiano «assimilare» è frutto di evoluzione semantica); la frase citata (a p. 207) dal Kleines Theologisches Wörterbuch, di Rahner e Vorgrimler (che non è proprio il massimo che si possa citare in tema di escatologia) alla voce «Himmel», per cui il cielo non sarebbe un luogo, è avulsa dal contesto, per cui, rileggendo tutta la voce, viene corretta nel senso tradizionale.
18   Cfr la Quaestio disputata «Auferstehung im Tode» di G. Greshake - G. Lohfink (Freiburg, 19825) con la nostra critica in G. Lorizio (ed.), Morte e sopravvivenza, Roma, Ave, 1995, 289-316.
19   Il più grave è quello di attribuire a Tommaso l’affermazione che in Summa Gent. III, 163 Dio «spinge […] ad agire effettivamente male. No comment» (p. 254 s). Il commento è invece necessario: Tommaso continua nel testo con le parole reprobatio includit voluntatem permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa.

20   Basta ricordare la seguente sentenza: «Il biblicismo è una pericolosa malattia, è la paralisi dello spirito» (p. 279). Già prima Mancuso aveva informato il lettore che, tra i 73 libri biblici, «ve ne sono di banali [...]; alcuni sono capolavori assoluti, mentre altri presentano pagine persino dannose al progresso spirituale delle anime verso la via del bene e della giustizia» (p. 104 s).
21   Questa è ben formalizzata e più solida di quanto forse l’Autore si immagina: si veda anche soltanto il chiarissimo piccolo capolavoro del Bochenski, uno dei maggiori storici della logica del Novecento, dal titolo The Logic of Religion (New York, 1965) e il Method in Theology di B. Lonergan.

E VIVA SANT'ANTONIO!!!


Oggi il momento centrale della festa del patrono,
che da quest'anno si estende a un mese intero di iniziative.
Mattiazzo: «Venne da immigrato,
ma si lasciò coinvolgere nelle vicende liete e tristi della città».
Tutte le campane di Padova suonavano insieme, ieri sera, ad accompagnare il «transito» di Sant'Antonio. Si è aperta così la festa del patrono della città, che si celebra oggi e richiama ogni anno migliaia di pellegrini da tutto il mondo per onorare la tomba di questo dottore della Chiesa, emblema della carità. La sacra rappresentazione, che rievoca le ultime ore di vita del taumaturgo, trasportato su un carro di buoi da Camposampiero all'attuale santuario di Sant'Antonino all'Arcella dove morì, è stata accompagnata quest'anno da un inedito concerto di tutte le campane della città, in memoria di un'antica narrazione che si trova nella prima biografia di Antonio, l'"Assidua". Si dice infatti che al momento della sua morte le campane di Lisbona, città natale del santo, si misero miracolosamente a suonare. Ma il «concerto» di ieri sera ha voluto rappresentare anche un invito ai padovani a raccogliersi in preghiera. Una novità tra le tante che costellano il «giugno antoniano», l'iniziativa lanciata per la prima volta da Basilica del Santo, Veneranda Arca, Pastorale cittadina, Comune e Provincia di Padova, Turismo Padova Terme Euganee. «Con il Giugno antoniano, avviato con il pellegrinaggio notturno dei giovani lungo il cammino di sant'Antonio - spiega Gianni Berno, presidente della "Veneranda Arca del Santo", deputata a conservare e migliorare il patrimonio artistico e culturale del complesso antoniano - si intende valorizzare la figura di Antonio e della Basilica pienamente inserita nella città e nella Chiesa locale. Il "giugno" è una testimonianza della comune volontà di riportare al centro dell'esperienza di Padova sant'Antonio. Il Santo propone un messaggio positivo, valoriale e di unità per Padova, troppo spesso bistrattata dai "mass media"». Ed è lo stesso vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, che nel tradizionale messaggio alla città per la festa del patrono, invita la popolazione, sull'esempio portato dal taumaturgo, a un rinnovato senso di responsabilità nei confronti di una città che vanta un ampio patrimonio e riconoscimento internazionale dal punto di vista artistico, culturale, e la cui fede ha prodotto grandi opere di carità (la "Caritas" antoniana e diocesana, il "Pane di sant'Antonio", le "Cucine popolari"…) e animato lo spirito missionario di numerosi preti, religiosi e laici. «Sant'Antonio - ricorda l'arcivescovo - venne a Padova da immigrato, ma divenne cittadino coinvolto responsabilmente nelle vicende liete e tristi della nostra città (…). Egli annunciò con parola vibrante e testimoniò con la sua vita Gesù Cristo e il suo vangelo di verità, di carità e di pace. Animato da senso della giustizia e della carità, si prodigò per sanare le ferite dei cuori, per chiamare alla conversione, per far fiorire le virtù della giustizia, della carità, della solidarietà. Non ebbe paura di affrontare chi deteneva il potere usandolo male. Egli resta per questo un modello e un intercessore per noi e per la nostra società».
Messaggio che ritorna anche nelle parole di padre Enzo Poiana, rettore della Basilica: «Antonio è un santo "immigrato". Non indigeno, ma venuto da molto lontano. Come i tanti fratelli e sorelle stranieri che rendono vivace e multiculturale, con la loro presenza e la loro devozione, la basilica padovana. La basilica è un continuo richiamo alla città di Padova a non chiudersi in angusti confini mentali, anzi a diventare sempre più aperta, internazionale, mondiale: esempio di accoglienza verso i pellegrini che la affollano tutto l'anno e modello di ritrovata fierezza per quel santo frate che da quasi 800 anni è il suo "logo", il suo più conosciuto e venerato cittadino».
A questo popolo di pellegrini le porte della basilica si aprono stamani all'alba: la prima Messa è alle 6 e a seguire di ora in ora fino alla solenne celebrazione presieduta dal vescovo Mattiazzo e concelebrata dal clero cittadino alle 11. Gli appuntamenti «solenni» seguono nel pomeriggio con i vespri e la «tredicina a Sant'Antonio» con padre Enzo Poiana. Alle 17 la celebrazione sarà presieduta dal neoeletto ministro generale dell'ordine dei frati minori conventuali, padre Marco Tasca, originario della provincia di Padova. Saranno presenti un centinaio di frati provenienti da oltre 60 paesi, in Italia per il capitolo generale dell'ordine. Al termine della Messa l'attesa processione cittadina con le reliquie del Santo, che quest'anno vedrà due novità: la ripresa dell'antico e più lungo percorso e l'addobbo di tutte le case che si affacciano sul tragitto con drappi che riportano il simbolo antoniano del giglio e la scritta «Padova, città del Santo». A chiudere la giornata il concerto di Antonella Ruggero nel vicino Prato della Valle.

Il malessere di vivere


Il mal di vivere, oggi è radicato in noi esseri umani, più di quanto si possa immaginare, le vittime più indifese sono i giovanissimi e coloro che attraversano fasi come menopausa per le donne, andropausa per gli uomini, e non dimentichiamo gli anziani, che spesso sono lasciati soli nella loro interiorità.

Mi torna in mente una pubblicità di molti anni fa che diceva: basta prendere una pillola e tutto va giù, già spesso il mal di vivere, è un sintomo di una depressione che è latente o sta per scoppiare.

Ma non è così semplice, come può sembrare, una pillola non basta a farti sentire di nuovo bene, o vivo e pieno di gioia di vivere, può migliorare il tuo umore, e certo ti aiuterà nelle fasi peggiori, ma il male di vivere è anche un urlo dell'anima, che ti avverte che sta morendo di fame, che sta morendo di sofferenza, di amarezza, è un distacco profondo dall'essere spirituale che non riesce più a trasferire l'energia universale sulla persona che si è chiusa in un tombino senza via d'uscita.

Non siamo composti di sola carne, non abbiamo necessità solo di soddisfazioni materiali, non siamo solo delle identità con nome e cognome, siamo molto di più, ma spesso lo dimentichiamo. I modelli di vita che si presentano a noi di bellezza fisica, di felicità, non sono una realtà per tutti, c'è chi è malato, chi è solo, chi è talmente stanco da non farcela più, tanto, da non riuscire nemmeno a chiedere aiuto, ma chi se accorge? ognuno è chiuso nel proprio bozzolo, ed il dono dell'empatia, viene sempre più disprezzato e allora?

Allora, andiamo pure da un bravo psicologo, ma ricordiamo che la chiave di accesso per entrare nel nostro essere, l'abbiamo solo noi, gli altri possono solo diventare delle finestre alle quali affacciarsi per vedere che il sole esiste, la vera cura è alzare gli occhi al cielo, non trattenere le lacrime, accettarci per ciò che siamo, unici e irripetibili e preziosi, anche se non abbiamo capito ancora qual'è la nostra missione, anche se ci sembra di essere inutili, incompresi e messi in disparte.

Il mal di vivere non è un nemico da sconfiggere, ma una crisi, un terremoto dentro di noi, che ci avverte che nulla potrà essere come prima, che occorre andare oltre, conoscere altre realtà, avere il coraggio di sopportare il senso di vuoto, che ci assale, la vita è piena di miracoli, ma anche di tante faticose salite, di dolori improvvisi, di delusioni, ma a decadere, sono solo le nostre illusioni, non noi.

Curiamo il nostro mal di vivere, prendendo anche la pillola, andando perchè no, dallo psicologo, ma soprattutto nutrendo il nostro spirito, cercando un filo diretto con lui, che ne sa una più del diavolo, e sapremo che tutto è circolare, che in ogni luogo ed in ogni atomo c'è vita, e anche gioia, che nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, noi compresi.

CORPUS CHRISTI

Existe no decorrer do ano, diversas datas que são definidas como feriado, seja, municipal, estadual ou nacional. Geralmente, um feriado sempre é bem vindo; para muitos sinônimo de folga no trabalho e diversão. Mas, há uma questão muito séria que encontra-se por trás de alguns destes feriados, são "dias santos", por conseqüência consagrado há alguma entidade venerada por multidões; estes feriados é uma forma de devotar louvor ou veneração a  personagens declarados como "santos" (1Co 10.19,20).
Irmãos queridos somos chamados a uma vida santa (separada) e compromissados com as verdades de Deus que estão expressas de forma clara na Bíblia; o Espírito Santo move e faz-nos ver que é incompatível com a fé verdadeira participar destas consagrações  tradicionais  em algumas cidades. E, na condição de separados que somos, é sábio declararmos  diante das trevas que anulamos em nome de Jesus Cristo,  todo poder e autoridade constituída pelos homens às forças espirituais contra nossas vidas. O passo seguinte é procurarmos viver um dia, de muita vigilância e consagração ao Senhor (Mt 26.41), para que não sejamos atingidos pelo inimigo.

Corpus Christi é uma festa ao Corpo de Cristo. É uma data adotada na Igreja Católica, para comemorar a presença real de Jesus Cristo no sacramento da Eucaristia, pela mudança da substância do pão e do vinho na de seu corpo e de seu sangue (O Catolicismo declara que a hóstia, torna-se literalmente em Carne e Sangue do Senhor Jesus). 
A seguir, veja como iniciou-se esta comemoração:

A origem da Solenidade do Corpo e Sangue de Cristo remonta ao século XII. A Igreja sentiu necessidade de realçar a presença real do "Cristo todo" no pão consagrado. Esta necessidade se aliava ao desejo do homem medieval de "contemplar" as coisas. Surgiu nesta época o costume de elevar a hóstia depois da consagração. Disseminava-se uma controvertida piedade eucarística, chegando ao ponto das pessoas irem à igreja mais "verem" a hóstia do que para participarem efetivamente da eucaristia
A Festa de Corpus Christi foi instituída pelo Papa Urbano IV com a Bula ‘Transiturus’ de 11 de agosto de 1264, para ser celebrada na quinta-feira após a Festa da Santíssima Trindade, que acontece no domingo depois de Pentecostes. O Papa Urbano IV foi o cônego Tiago Pantaleão de Troyes, arcediago do Cabido Diocesano de Liège na Bélgica, que recebeu o segredo das visões da freira agostiniana, Juliana de Mont Cornillon, que exigiam uma festa da Eucaristia no Ano Litúrgico.
Juliana nasceu em Liège em 1192 e participava da paróquia Saint Martin. Com 14 anos, em 1206, entrou para o convento das agostinianas em Mont Cornillon, na periferia de Liège. Com 17 anos, em 1209, começou a ter ‘visões’,
(que retratavam um disco lunar dentro do qual havia uma parte escura. Isto foi interpretado como sendo uma ausência de uma festa eucarística no calendário litúrgico  para agradecer o sacramento da Eucaristia). Com 38 anos, em 1230, confidenciou esse segredo ao arcediago de Liège, que 31 anos depois, por três anos, será o Papa Urbano IV (1261-1264), e tornará mundial a Festa de Corpus Christi, pouco antes de morrer.
A ‘Fête Dieu’ começou na paróquia de Saint Martin em Liège, em 1230, com autorização do arcediago para procissão eucarística só dentro da igreja, a fim de proclamar a gratidão a Deus pelo benefício da Eucaristia. Em 1247, aconteceu a 1ª procissão eucarística pelas ruas de Liège, já como festa da diocese. Depois se tornou festa nacional na Bélgica.
A festa mundial de Corpus Christi foi decretada em 1264, 6 anos após a morte de irmã Juliana em 1258, com 66 anos. Santa Juliana de Mont Cornillon foi canonizada em 1599 pelo Papa Clemente VIII.
O decreto de Urbano IV teve pouca repercussão, porque o Papa morreu em seguida. Mas se propagou por algumas igrejas, como na diocese de Colônia na Alemanha, onde Corpus Christi é celebrada antes de 1270.
O ofício divino, seus hinos, a seqüência ‘Lauda Sion Salvatorem’ são de Santo Tomás de Aquino (1223-1274), que estudou em Colônia com Santo Alberto Magno. Corpus Christi tomou seu caráter universal definitivo, 50 anos depois de Urbano IV, a partir do século XIV, quando o Papa Clemente V, em 1313, confirmou a Bula de Urbano IV nas Constituições Clementinas do Corpus Júris, tornando a Festa da Eucaristia um dever canônico mundial. Em 1317, o Papa João XXII publicou esse Corpus Júris com o dever de levar a Eucaristia em procissão pelas vias públicas.
O Concílio de Trento (1545-1563), por causa dos protestantes, da Reforma de Lutero, dos que negavam a presença real de Cristo na Eucaristia, fortaleceu o decreto da instituição da Festa de Corpus Christi, obrigando o clero a realizar a Procissão Eucarística pelas ruas da cidade, como ação de graças pelo dom supremo da Eucaristia e como manifestação pública da fé na presença real de Cristo na Eucaristia.
Em 1983, o novo Código de Direito Canônico – cânon 944 – mantém a obrigação de se manifestar ‘o testemunho público de veneração para com a Santíssima Eucaristia’ e ‘onde for possível, haja procissão pelas vias públicas’, mas os bispos escolham a melhor maneira de fazer isso, garantindo a participação do povo e a dignidade da manifestação.
A Eucaristia é um dos sete sacramentos e foi instituído na Última Ceia, quando Jesus disse :‘Este é o meu corpo...isto é o meu sangue... fazei isto em memória de mim’. Porque a Eucaristia foi celebrada pela 1ª vez na Quinta-Feira Santa, Corpus Christi se celebra sempre numa quinta-feira após o domingo depois de Pentecostes.

Os dados históricos foram colhidos em sites Católicos, facilmente encontráveis na rede.
                                                             
 Elias R. de Oliveira

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