DI: CORRADO MARUCCI
S.I.
Nel suo ultimo libro Vito
Mancuso1, docente di Teologia moderna e
contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano,
espone quello che si può definire un moderno trattato di escatologia. In vari
riferimenti sparsi nel corso dell’esposizione, egli concepisce il proprio
lavoro come «costruzione di una “teologia laica”, nel senso di rigoroso
discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia».
Questo «discorso» si sviluppa nel testo, dopo la prefazione del card. Martini,
nella quale egli afferma, fra l’altro, «di sentire parecchie discordanze su
diversi punti», e un capitolo introduttivo sulle coordinate speculative
dell’Autore di circa 50 pagine, in nove capitoli che trattano dell’esistenza
dell’anima, della sua origine e immortalità, della salvezza dell’anima, della
morte e del giudizio, della terna paradiso/inferno/purgatorio e infine di
parusia e giudizio universale. Chiudono una Conclusione e l’indice degli autori
citati.
Data la mole degli argomenti
trattati e lo stile enciclopedico scelto
dall’Autore, è praticamente impossibile esporre sinteticamente e commentare le
convinzioni, le conclusioni, le proposte, le tirate ironiche e gli stimoli
disseminati nel testo2. Ci
limitiamo qui all’essenziale, col rischio di trascurare cose che possono essere
sembrate essenziali all’Autore.
Introduzione
Nel lungo capitolo
introduttivo egli espone uno dopo l’altro i cardini di ciò che intende
sviluppare in seguito. In realtà si tratta di un insieme di convinzioni e
princìpi in parte decisamente ovvi (quanto alla necessità di aderire alla
verità, chi ha mai ammesso che si possa argomentare a partire da falsità o
addirittura accettarle?), in parte bisognosi di molti distinguo
(sembrerebbe che per l’Autore l’ultima istanza di ogni argomentazione sia
l’accordo o almeno il non disaccordo con le scienze positive e ciò è ovviamente
discutibile, poiché queste sono in un continuo processo autocorrettivo e spesso
non prive di preconcetti e indebite estrapolazioni). Mancuso, seguendo una moda
terminologica più del gergo politico e giornalistico che non filosofico,
dichiara che il suo referente è la «coscienza laica», intendendo con ciò «la
ricerca della verità in sé e per sé» (p. 9). Sarebbe difficile trovare qualche
pensatore, dai presocratici a oggi, che abbia un differente concetto di verità:
il problema è come si può arrivare alla certezza di aver raggiunto tale verità.
Ma forse, come emerge da alcune allusioni, egli è convinto che chi aderisce
alla fede cristiana lo faccia tacitando le difficoltà razionali o addirittura
senza troppo pensare. L’Autore riassume poi diversi dati e acquisizioni
scientifiche relative alla materia, alla sua equivalenza con l’energia,
all’evoluzione, che egli ritiene necessario integrare con il concetto di
relazione.
Diverse volte, in questo
capitolo e anche nei seguenti, Mancuso dice di voler essere un pensatore
cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli, in un’opera
che sostanzialmente vorrebbe essere di teologia, tra le premesse argomentative
non faccia alcun riferimento alla metodologia dell’esegesi biblica e a quella
propria della teologia cattolica. Sulle conseguenze di questa mancanza
torneremo in seguito. Le ultime pagine del primo capitolo possono qui essere
tralasciate sia perché difficilmente riassumibili, sia perché le necessarie
critiche saranno più evidenti nelle loro conseguenze sui singoli argomenti
trattati in seguito.
L’«anima spirituale»
Nei capitoli seguenti
l’Autore espone le sue convinzioni sugli argomenti classici relativi all’anima
e al suo destino finale. Innanzitutto, sempre attingendo ad autori del passato
a partire dagli antichi egizi fino al recente Catechismo della Chiesa Cattolica,
egli si dichiara apertis verbis per l’esistenza dell’anima spirituale
nell’uomo arrivato a maturità (?). Va detto tuttavia che con il termine «anima
spirituale» egli intende molte cose, ci pare, più legate a concetti come
energia, relazione, libertà, creatività e così via, legati cioè più alla
materia, o ai sensi o ancora conseguenze della presenza nell’uomo della
dimensione spirituale. Molte osservazioni, derivanti dai più disparati settori
della vita, sono condivisibili, altre oscure dal punto di vista concettuale.
Quello che però stupisce è la completa assenza di argomenti veri e propri che dimostrino
l’esistenza di quella realtà che in tutta la tradizione cristiana si è chiamata
anima o spirito. Ovviamente ogni dimostrazione vale all’interno di un sistema
logico predefinito; ma poiché, come si è detto, Mancuso non dichiara le sue
coordinate logiche, non è possibile giudicarne le asserzioni. È ovvio che la
pura assimilazione alle scienze fisico-chimiche contemporanee non potrà mai
essere sufficiente allo scopo, poiché il loro oggetto formale sono i dati materiali sensibili e osservabili.
Nella sistemazione classica
del cattolicesimo la dimostrazione dell’esistenza dell’anima spirituale era
demandata alla filosofia, quale ancilla theologiae. Dall’ovvia esistenza
nell’uomo dell’intellezione e del conseguente giudizio, che sono operazioni non
materiali, ma spirituali, si deduceva la necessità di un principio immateriale
nell’uomo, poiché la materia non è capace di operazioni non materiali. Il
supporto logico-argomentativo era dato dall’ontologia aristotelico-tomista.
Quanto invece alle argomentazioni di Mancuso, non è difficile immaginare che un
lettore non digiuno di logica e di filosofia le trovi vaghe e poetiche3. Quanto poi al momento dell’infusione dell’anima
razionale nel corpo, l’Autore, in buona sostanza, pare far sua la teoria delle formae
viales, che la filosofia scolastica aveva ereditato da Aristotele, come
conseguenza dell’assioma che ogni forma ha bisogno di una materia adeguatamente
preparata a riceverla. Tale teoria però, oltre che per difficoltà teoretiche, è
stata abbandonata dalla Chiesa cattolica, perché le operazioni vitali,
vegetative e sensibili, per sostenere le quali si invocava la presenza nel feto
di un’anima soltanto vegetativa e in seguito soltanto sensibile, possono essere
tranquillamente attribuite fin dall’inizio all’(unica) anima razionale, come si
fa in seguito nell’esistenza umana matura.
A nostro parere
l’applicazione dell’assioma sopra ricordato non conduce ad alcuna conclusione
sicura, poiché la sproporzione ontologica dell’anima spirituale è totale nei
confronti di qualsiasi tipo di materia; non è questione cioè di gradi. Su
questo tema stupisce infine il silenzio di Mancuso in merito a tutta quella
serie ormai ricchissima di studi sulla fisiologia del cervello per appurare se
vi siano operazioni umane non spiegabili con le sole proprietà neurologiche4. Notiamo infine che diverse volte5 nel corso dell’esposizione Mancuso
attribuisce alla dottrina ecclesiale l’idea che per essa l’anima sia una
sostanza, cosa assolutamente erronea: il famoso asserto per cui l’anima è forma
(substantialis) corporis significa che essa non è una sostanza bensì un principium
entis; la sostanza è la persona umana6.
L’origine dell’anima
Il testo poi presenta tutto
un capitolo (30 pagine) sul problema dell’origine dell’anima. Nonostante il
tentativo di distanziarsi anche in questo punto dalle concezioni tradizionali
(di cui egli cita tutta una serie), Mancuso in buona sostanza concorda con la dottrina
ecclesiale praticamente in tutto, fatta eccezione per l’affermazione che
l’anima umana viene creata direttamente da Dio. In proposito va ricordato che
tale dottrina non è mai stata definita come dogma di fede; i manuali le danno
la qualifica di theologice certa. L’Autore lo ammette, benché non
spieghi esattamente il significato di questa nota theologica7. La conseguenza di questo fatto è che
la dottrina contraria (in questo caso che i genitori trasmettono l’anima al
concepito) è accettabile laddove si riesca a dimostrare che le argomentazioni
razionali che conducono alla necessità del suo contrario non tengono.
Orbene non ci pare che
questo riesca all’Autore, ma che anzi quelle classiche siano ancora valide8, aggiungendo comunque che l’asserto per
cui le anime sono create direttamente da Dio ha anche la funzione di
sottolineare che ciò che nasce (con una fenomenologia molto varia e addirittura
a volte casuale) in realtà è sempre qualcosa di per sé direttamente voluto da
Dio, destinato a dialogare con lui e che quindi non rappresenta mai un progetto
solamente storico o fattuale, ma eterno. Mancuso sfrutta qui una sua ricorrente
convinzione che lo spirito, in quanto energia, possa derivare dalla materia e
contesta l’opposizione classica tra spirito e materia, per cui l’una è il
contrario dell’altra. Non è il caso di ribadire questa concezione che, una
volta capiti i termini, è ovvia; il problema è che qui, e per tutto il libro,
l’Autore opera con un concetto di spirito che non è quello di cui parla tutta la
tradizione cristiana. Affermare infatti che esso è energia e appellarsi alla
fisica einsteiniana è un’idea perlomeno bizzarra9.
Come può una realtà estesa, misurabile e presente anche nelle cose e negli
animali, essere spirituale?
D’altronde Mancuso aveva
dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione al pensiero evolutivo
e a Teilhard de Chardin. Citando poi come esempio il noto manuale di Flick e
Alszeghy, egli sostiene che nell’argomentazione tradizionale ci sarebbe un
circolo vizioso; ma perlomeno nell’edizione finale di tale manuale10 tutto ciò è affatto assente:
l’immortalità dell’anima è detta naturale fin dall’inizio, anche se ovviamente
voluta da Dio e quindi, dicono i due dogmatici, può essere creata soltanto da
Dio. Foriera di gravi conseguenze etiche è l’affermazione che «non c’è più (nel
caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l’anima
razionale-spirituale» (p. 107): è chiaro che Mancuso confonde la facoltà con il
suo esercizio11.
Immortalità e salvezza dell’anima
Il quarto capitolo, di 40
pagine, è dedicato all’immortalità dell’anima. Affastellando citazioni e bons
mots (a volte poco pertinenti) di pensatori e scienziati dell’antichità,
del Medioevo e moderni, Mancuso arriva alla conclusione che per l’immortalità
dell’anima non esistono prove (p. 123 e passim). Senza analizzare i
motivi del dogma, egli si sofferma sull’esistenza o meno di un Dio personale e
su problemi derivanti dalla domanda spontanea di perennità innata nell’uomo. La
definizione, ribadita in tutto il corso del testo, dell’anima come energia
impedisce di capire il senso delle dimostrazioni classiche e delle numerose
conferme bibliche concernenti l’immortalità dello spirito umano. Non è qui il
caso di contestare singole affermazioni del testo, che procede veramente a
ruota libera12.
L’Autore ritiene necessario
dedicare poi il quinto capitolo, di 37 pagine, al tema della salvezza
dell’anima. Innanzitutto dichiara che tutti i contenuti veicolati dal dogma del
peccato originale13 devono
essere riformulati o abbandonati; concretamente Mancuso ritiene corretto
parlare soltanto di «peccato del mondo». Prescindendo praticamente dalla
teologia paolina, ma ricorrendo a Platone, Anassimandro e Bonhoeffer egli
ritiene di dover «rifondare» fede e tradizioni (p. 168). Cercando allora di
rispondere alla domanda se dobbiamo ancora essere salvati e se sì, da cosa e
come, l’Autore spiega «da noi stessi e dalla vita disordinata (nel senso di
sottoposta all’entropia)» (p. 173). Quanto al come, egli proclama che «non è la
religione che salva: […] non sono i sacramenti, la Messa , i rosari, i
pellegrinaggi, le indulgenze, la
Bibbia » (p. 176), e oltre «non c’è alcuna esigenza di credere
nella sua [cioè di Gesù] resurrezione dai morti per essere salvi» (p. 183). È
ovvio che siamo agli antipodi di ciò che Paolo afferma in 1 Cor 15 e in
molti altri passi.
Il sesto capitolo, di 18
pagine, è dedicato a «Morte e giudizio». Anche qui Mancuso, sulla base di
rudimentali richiami biblici (tra i quali manca il testo principale Gn
2,17; 3,19) definisce i dati tradizionali come contraddittori (cfr p.
189); quanto alla valenza della morte
egli, in buona sostanza, va catalogato tra coloro che negano la reale
problematicità della morte degli umani14,
posizione difforme dalla dogmatica cattolica. Sul criterio del giudizio dopo la
morte, Mancuso invece di ricordare la classica formula paolina della fides
caritate formata preferisce appoggiarsi a Platone, Marc’Aurelio, Pascal,
Kant e Simone Weil.
I quattro capitoli seguenti,
più sintetici dei precedenti, riguardano paradiso, inferno, purgatorio, e
parusia e giudizio universale. Anche per il paradiso, la visione beatifica e la
risurrezione dei corpi l’Autore compie una completa «demitizzazione», sempre
argomentando da alcuni suoi assiomi non ulteriormente discussi quali l’identità
tra spirito e materia, la concezione dell’anima come energia e l’eterna
validità delle leggi fisiche. Egli stabilisce perciò che la distinzione tra
immortalità dell’anima e risurrezione dei corpi è «del tutto infondata» (p.
223), che la concezione per cui le anime dei defunti vivono «un letargo simile
alla morte» sarebbe «oggi maggioritaria tra i teologi e ancor più tra i
biblisti» (p. 214)15 e che
«la convinzione che nessun intelletto creato può vedere l’essenza di Dio [è] la
peggiore delle eresie» (p. 219), che «la credenza della risurrezione della
carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica» (p. 225) e così via.
Non è qui possibile commentare questa congerie di affermazioni anche perché le
argomentazioni ora sono oscure, ora soltanto accennate sulla base di citazioni,
di convinzioni e frasi di pensatori di ogni epoca. Ci limitiamo a segnalare
che, in contesto escatologico, il termine «eternità» ha due significati assai
diversi, soltanto analogici: se si parla di quella di Dio, essa implica
l’assenza di ogni successione e di ogni distinzione tra essenza e operazioni16, mentre per gli altri esseri
spirituali il termine implica la perennità de iure, non solo de facto,
ma non esclude la successione temporale e questo risolve alcune antinomie che
Mancuso crede di rintracciare nella dogmatica cattolica17. Nonostante il profluvio di autori
citati, pare che Mancuso non conosca la letteratura collegata al concetto di
«risurrezione nella morte», che è la più recente querelle di carattere
escatologico in campo cattolico18.
Venendo poi a parlare
dell’inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (ben 35 pagine)
alla confutazione del dogma dell’eternità dello stesso. Anche qui, saltando da
Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria
affermazione per cui «parlare di eternità dell’Inferno è una contraddizione
assoluta» (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere
tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi: dopo aver a lungo esposto il
pensiero di P. Florenskij, egli resta, per così dire, anceps, dopo aver
fatto un peana dell’antinomia annunciata. Il lettore noterà la mancanza di
analisi delle numerose affermazioni del Nuovo Testamento, con l’introduzione di
errori teologici anche non lievi19.
Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell’apocatastasi, oltre
che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol
mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all’appello
di Dio.
Dopo aver definito il
purgatorio «una salutare invenzione», Mancuso afferma che l’unica modalità che
gli appare «razionalmente legittima» è di concentrarlo nell’istante della morte
(p. 279). La parusia infine è da lui definita come maggiormente bisognosa di
essere ripensata (cfr p. 289). In definitiva il testo sostiene che non ci sarà
alcun ritorno del Gesù glorioso; le frasi corrispondenti del Nuovo Testamento
sono errori di Gesù e di Paolo. Per Mancuso è semplice anche spiegare perché
«Dio non è mai intervenuto direttamente nella storia» e perché «non tutta la
bibbia è parola di Dio»!
Conclusione
Se per teologia si intende
la riflessione dell’intelletto umano illuminato dalla fede sulla Sacra
Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il nostro giudizio complessivo
su questa opera non può che essere negativo. L’assenza quasi totale di una
teologia biblica20 e della recente
letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita
di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce
l’Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di
dogmi della Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati
autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo
scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini
poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non
corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale21.
In realtà non è facile
neanche elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso
dell’esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e
così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà
di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si
possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche. Nel contesto di
notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica
contemporanea, questo testo ci sembra che contribuisca ad aumentare tale
confusione. L’Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò,
dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è
facile, poiché si può confutare soltanto ciò che è organicamente formulato al
di dentro di un preciso assetto epistemologico.
1 Cfr V. Mancuso,
L’anima e il suo destino, Milano, Cortina, 2007, XVI-323, € 19,80. Le
pagine indicate nel testo si riferiscono a questo volume.
2 È spiacevole che in un’opera teologica ci
siano titoli come «il deposito di zio Paperone» (p. 37) e «Vino e tortellini»
(p. 40). Ancora a p. 73 il matrimonio è detto «legame chimico totale della
libertà». Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
3 Alquanto sorprendente invece è la
convinzione dell’Autore secondo la quale le attività più chiaramente spirituali
dell’uomo sono «scienza, arte, musica, pensiero» (p. 64). Anche in seguito si
sostiene che la musica è la massima espressione spirituale dell’uomo.
4 Su questo settore di ricerca cfr, tra i
molti, H. Goller, «Hirnforschung
und Menschenbild», in Stimmen der Zeit 218 (2000) 579-594 (con abbondante
bibliografia) e H. Schöndorf,
«Gehirn - Bewußtsein - Geist», in Herder-Korrespondenz 53 (1999)
264-267.
5 Cfr, ad esempio, pp. 53, 77, 93, 97.
6 Ricordiamo en passant che anche per
la cosiddetta anima separata san Tommaso precisa che essa non è persona umana
(cfr Summa Th. 1, 29, 1 ad 5m; Pot 9, 2 ad 14m; Summa contra
Gentiles 4, 79).
7 Tale qualifica significa che un asserto è
necessariamente connesso mediante operazioni logiche a un dogma di fede, non,
come spiega Mancuso, «che i pronunciamenti del Magistero sono stati tali da
rendere tale dottrina patrimonio sicuro della fede cattolica» (p. 85).
8 Senza stare qui a ripeterle rimandiamo
all’esposizione di M. Flick - Z. Alszeghy,
Il Creatore, l’inizio della salvezza, Firenze, Lef, 19612,
251 s.
9 Con la solita mescolanza dei generi
letterari egli afferma che «per avere una reale esperienza spirituale […] non è
necessario […] andare in Chiesa, isolarsi in un monastero» (p. 87).
10
Cfr M. Flick - Z. Alszeghy,
Il Creatore…, cit., 183 ss; lo stesso vale per J. Donat, Psychologia, Oeniponte,
19327, 409 ss.
11 Più o meno le stesse cose vengono ripetute
dall’Autore oltre, alle pp. 136 ss.
12
Ci limitiamo a notare che non è vero che con le note prove tomistiche
dell’esistenza di Dio si approda sempre a un essere impersonale, poiché almeno
la quinta prova termina a un essere intelligente, che non può essere che
personale. Il termine riferito a Dio di universitatis principium, che
secondo Mancuso a motivo del neutro proverebbe che si tratta di qualcosa di
impersonale (p. 129), non viene usato da Tommaso nel contesto delle cinque
prove, ma una volta sola in Summa contra Gentiles 1, 1, 3.
13 Quanto al rapporto tra peccato dei
progenitori e peccato originale originato, notiamo che Mancuso pare ignorare il
noto saggio di K. Rahner «Theologisches zum Monogenismus», in Schriften
zur Theologie 1 (Einsiedeln, 19604) 253-322. Più avanti (p.
287), con la solita eccedenza verbale, egli stabilirà che «il peccato originale
[è] un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha
lasciato in eredità all’Occidente»!
14
Anche su questo tema avrebbe apportato chiarezza la conoscenza
dell’ottimo saggio di K. Rahner, Zur
Theologie des Todes (QD 2), Freiburg i.Br., 19613.
15
Non si citano nomi concreti, ma l’affermazione, per quanto concerne
teologi e biblisti cattolici, è completamente erronea (vedi anche i testi da
noi citati sotto in nota 18). In realtà fu Lutero a parlare per primo di un Seelenschlaf.
16 Il che è perfettamente espresso nella nota
definizione di Boezio: interminabilis vitae tota simul et perfecta
possessio. L’erronea concezione che Mancuso ha dell’eternità dello spirito
creato ritorna spesso (cfr soprattutto p. 313).
17
Segnaliamo in nota che la traduzione del p. Centi di assimilamur con
«somiglianza» in Summa contra Gentiles III, 51 (p. 218) è corretta
(l’italiano «assimilare» è frutto di evoluzione semantica); la frase citata (a
p. 207) dal Kleines Theologisches Wörterbuch, di Rahner e
Vorgrimler (che non è proprio il massimo che si possa citare in tema di
escatologia) alla voce «Himmel», per cui il cielo non sarebbe un luogo, è
avulsa dal contesto, per cui, rileggendo tutta la voce, viene corretta nel
senso tradizionale.
18
Cfr la Quaestio
disputata «Auferstehung im Tode» di G. Greshake
- G. Lohfink (Freiburg, 19825) con la nostra critica in G. Lorizio (ed.), Morte e sopravvivenza,
Roma, Ave, 1995, 289-316.
19 Il più grave è quello di attribuire a
Tommaso l’affermazione che in Summa Gent. III, 163 Dio «spinge […] ad
agire effettivamente male. No comment» (p. 254 s). Il commento è invece
necessario: Tommaso continua nel testo con le parole reprobatio includit
voluntatem permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam
pro culpa.
20
Basta ricordare la seguente sentenza: «Il biblicismo è una pericolosa
malattia, è la paralisi dello spirito» (p. 279). Già prima Mancuso aveva
informato il lettore che, tra i 73 libri biblici, «ve ne sono di banali [...];
alcuni sono capolavori assoluti, mentre altri presentano pagine persino dannose
al progresso spirituale delle anime verso la via del bene e della giustizia»
(p. 104 s).
21 Questa è ben formalizzata e più solida di
quanto forse l’Autore si immagina: si veda anche soltanto il chiarissimo
piccolo capolavoro del Bochenski, uno dei maggiori storici della logica del
Novecento, dal titolo The Logic of Religion (New York, 1965) e il Method
in Theology di B. Lonergan.