Dalla disperazione alla autenticità

Passare dalla porta stretta della disperazione per giungere alla pienezza della vita autentica
di Francesco Lamendola - 28/10/2012

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 


 


Grandezza di Kierkegaard.
Oggi la cultura dominante, edonista e relativista, ripete come un mantra che bisogna cercare la felicità e che la sofferenza, la solitudine, la disperazione, sono il Male Assoluto: delle forze bieche ed oscure, contro le quali è necessario, anzi doveroso, ingaggiare una vera e propria “battaglia per la civiltà” al fine di sradicarle, in quanto la loro esistenza è oltraggiosa  e incompatibile con una società moderna, fatta di uomini e donne che hanno DIRITTO alla felicità, così come al Progresso e alle meraviglie che da esso derivano, Scienza e Tecnica per prime.
Certo, è facile parlare così: ogni buon demagogo promette il Paradiso in terra a buon mercato, senza sforzo, senza sacrificio, senza lunghi tempi di attesa: il Paradiso qui e adesso, subito, immediatamente, appena dietro l’angolo; però, guarda caso, è da un pezzo che lo promettono e il Paradiso è sempre lì, proprio dietro l’angolo, oh, questione di metri, di centimetri forse, ancora un piccolo sforzo e sarà nostro, non c’è alcun dubbio, purché non si vanifichi quanto già fatto e non si modifichi la rotta sino a qui seguita dal nocchiero.
E soprattutto, bisogna dar fiducia a qualcun altro: a qualche ideologia, a qualche Principe, machiavelliano o gramsciano che sia, a qualche Partito, a qualche Azienda, a qualche Chiesa o Diocesi o Parrocchia, a qualche Guru o Cavaliere o Salvatore, a qualche formula, a qualche brevetto, a qualche scongiuro, a qualche giaculatoria brevettata e garantita, soddisfatti o rimborsati, venghino signori, affrettatevi, ultima offerta ultima occasione. Quel che importa è dar fiducia a qualcun altro, a qualcuno che si offre di guidarci: l’offerta è vastissima, ce n’è per tutti i gusti, ma proprio per tutti. Bisogna dar  fiducia e buttarsi, dar fiducia a tutti, anche ai più palesemente cialtroni e scalcinati: a tutti, tranne che a se stessi. L’importante è affidarsi a qualcun altro che ci indirizzi, poi si vedrà.
Kierkegaard se ne ride di queste mode, che ai suoi tempi già cominciavano a pavoneggiarsi per le strade, anche se in forme ridicolmente innocue, penosamente fragili a confronto della pervasività e della inarrestabile, efficacissima liquidità che hanno messo a punto nel corso degli ultimi due secoli. Kierkegaard è politicamente scorretto già nella prima metà del XIX secolo, talmente scorretto che nessuno vuol saperne di lui, nemmeno la Chiesa luterana che pure lui vorrebbe riformare per restaurare un cristianesimo integrale; talmente scorretto che le gazzette lo perseguitano a sangue, ne pubblicano insistentemente le caricature, lo scherniscono e lo deridono come un lebbroso, lo feriscono con l’arma più insidiosa dei malvagi: lo sberleffo sfrontato e tenace, implacabile, che nasconde la mano dopo aver tirato il sasso.
Kierkegard dice: la disperazione non è quella malattia mortale che tutti dipingono, al contrario: è l’occasione del disvelamento, della rinascita, della vita piena, perché autentica. Finché essa non bussa alla porta, gli uomini tendono a vivere come marionette, inconsapevoli perfino di quanto stiano recitando una parte mediocre: solo quando la disperazione penetra oltre le difese delle loro maschere; solo quando mette a nudo, impietosamente, i loro volti pallidi e disfatti; solo quando morde loro il cuore nella sua gelida stretta, solo allora nasce una speranza di riscatto, di ripresa, di ritorno alla vita, alla vita vera, alla vita sensata.
Grandezza di Kierkegaard: mentre l’hegelismo era indaffarato a instupidire legioni di studenti nelle più rinomate aule universitarie di tutta Europa, con le sue fumisterie velleitarie e deliranti, egli dalla sua provinciale “cittaduzza” su un’isola del Baltico, virilmente, solitario e incompreso, metteva coraggiosamente a nudo, non per cinismo o per superbia, ma in autentico spirito cristiano, e dunque con profondo senso di compassione per le creature umane, le illusioni e le follie di una cultura stregata dai falsi miti della modernità; e ricordava che, se un’anima non passa per la porta stretta della disperazione, non riuscirà mai a fare i conti sino in fondo con se stessa e, dunque, non troverà mai la strada della luce, della verità, della vita autentica.
La voce di Kierkegaard risuona netta e limpida anche nei confronti della tendenza opposta, ma speculare all’edonismo e al “progressismo” a buon mercato degli idealisti che si credono Dio: intendiamo dire la legione crescente dei pessimisti, dei nichilisti, dei leopardiani, dei romantici morbosi e apocalittici, degli schopenhaueriani, dei pirandelliani, dei kafkiani, degli heideggeriani e dei sartriani a un tanto il chilo: l’altra faccia della stessa medaglia, ossia il delirio d’onnipotenza dell’uomo moderno.
Per tutti costoro l’uomo viene dal caso e procede a caso; a caso si riproduce, a caso muore; nulla ha senso, dentro di lui e intorno a lui; la sua vita è un gioco delle circostanze, un incidente del destino; del resto, lo dice anche il darwinismo: è il caso la grande molla delle mutazioni genetiche, dunque dell’evoluzione, dunque della vita sulla Terra, e non per l’uomo soltanto, ma per tutte le creature esistenti: passate, presenti e future.
Kierkegaard ha uno sguardo malinconico, perché ha letto sino in fondo il divario fra il reale e l’ideale e ha potuto misurare, in tutta la sua dimensione abissale, la distanza che separa ciò che l’uomo è da ciò che potrebbe essere, da ciò che vorrebbe essere, dalle stanze superbe da cui proviene; ma non è cupo, non è negativo, non è un sacerdote del nulla, è anzi un maestro della vita, perché le sue sono parole di speranza, calde e palpitanti come un volo di uccelli che migrano verso i paesi caldi, verso i paesi della vita, ma animati dalla certezza del ritorno.
Ascoltiamo ancora una volta le sue parole: sono le parole di un profeta, nel significato originario che la parola aveva nella cultura ebraica: non tanto un conoscitore delle cose future, quanto un retto interprete delle cose presenti, alla luce del messaggio divino.

«Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?»

È ben curioso che Sartre e gli esistenzialisti si siano rifatti a Kierkegaard, visto che ne hanno stravolto e falsato l’istanza di base: la disperazione non come sinonimo di nausea esistenziale, ma come promessa di libertà; e la libertà non come maledizione da cui l’uomo non può evadere e in cui resta schiacciato, ma come promessa e compimento della vita autentica.
Ascoltiamolo ancora:

«L’io è formato dall’infinito e dal finito. Ma questa sintesi è un rapporto, e precisamente un rapporto che, sia pure derivato, si mette in rapporto con se stesso, il che vuol dire libertà. L’io è libertà!»

E questo è un grido di gioia, non certo di disperazione; o, se è un grido di disperazione, lo è di quella disperazione “buona”, che salva, perché ci mette a tu per tu con noi stessi, con la nostra parte più vera e profonda: senza maschere e senza orpelli, senza finzioni e senza trucchetti, nudi e soli davanti alla verità che grida e si agita in fondo all’anima nostra.
Noi non siamo la verità, ma abbiamo la verità in fondo al nostro essere: questa è la grande lezione di umiltà del cristianesimo, che la cultura moderna ha respinto con un sorriso di scherno, cadendo nelle due forme di disamore per la vita che sono la superbia prometeica, bramosa di dominare ogni cosa, e il nichilismo distruttivo, ansioso di suicidio e di morte. E in fondo alla nostra verità c’è la pietra preziosa della libertà, retaggio della nostra origine divina.
Ancora:

«[La disperazione] è un’espressione molto più profonda e completa, il suo movimento è molto più ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero.»

Quale chiarezza, quale meravigliosa linearità, quale capacità di dire l’essenziale con il minimo delle parole.
Kierkegaard non è mai un venditore di fumo; sono i venditori di fumo che hanno bisogno di molte parole, perché devono fare molte promesse.
L’uomo moderno è l’uomo del dubbio: compare con Petrarca, cortigiano ipocrita e vanitoso; culmina con Cartesio, che ne fa la chiave di volta delle sue certezze, ma amputando miseramente la natura umana; prosegue con Voltaire, l’uomo che dubita di tutto ma che sorride di ogni cosa, ostentando il sorriso sardonico e sprezzante di chi si prepara a rifilarci una nuova religione, di cui ovviamente si sente il sacerdote designato.
E noi siamo un po’ tutti nipotini di Voltaire; siamo un po’ tutti illuministi, magari in bancarotta, ma pur sempre illuministi: è la nostra carta d’identità, come potremmo altrimenti circolare sulle strade? Anzi, è il nostro blasone di nobiltà, quello che ci permette di distinguerci dalle plebi pezzenti e oscurantiste, superstiziose e sanfediste, non ancora toccate dal sole della Ragione, né civilizzate dai benefici raggi del progresso.
Se, non sia mai!, dovessimo per avventura rinunciare a quel dubbio corrosivo, a quel sardonico sorriso, al busto di Voltaire sulla libreria del salotto, magari in versione Piergiorgio Odifreddi o Margherita Hack, saremmo perduti: che cosa mai varrebbe a separarci, noi uomini civili, noi razionali cittadini del terzo millennio, da un selvaggio dipinto del Borneo, da un cacciatore di teste dell’Amazzonia peruviana o da una stupida vecchietta che attraversa un santuario, biascicando preghiere e invocazioni a qualche santo inesistente?
Frattanto quel sorriso è diventato una smorfia, un ghigno, un cachinno: il dubbio è rimasto, ma si è trasformato nel paravento di una certezza nuova, disumana, satanica: che nulla ha senso, che nulla è vero, che nulla è giusto, che nulla è buono; e che, dunque, visto che non si dà alcun Dio né alcuna Provvidenza, tanto vale scommettere sul Diavolo e sulle sue tenebre, per ritagliarsi almeno qualche vantaggio temporaneo, qualche irripetibile ancorché disperata occasione, come farebbe il cantiniere deciso a prendersi una sbornia solenne, quando si dovesse accorgere che il suo bastimento è ormai sul punto di affondare.
Le boriose certezze dell’uomo moderno, così come le sue speculari ed abissali convulsioni nichiliste, sono il bastimento che ha fatto naufragio sugli scogli: dopo aver tutto demolito con il dubbio sistematico, egli si è dimenticato di ricostruire, o forse ha perso il gusto del muratore, avendo preso ormai troppo gusto a recitar la parte del dinamitardo.
C’è una cupa voluttà nel demolire, di cui si può diventare schiavi, ma con cattiva coscienza: allora si indossa la maschera di chi distrugge dicendo che poi vuol ricostruire; ma la verità è che non si sa e forse neanche si vuol ricostruire; si vuol godere, invece, della distruzione fine a se stessa, abbandonarsi all’ebbrezza del “cupio dissolvi” come al potente richiamo d’una droga.
È tempo di risvegliarsi da questa ebbrezza sinistra, da questo incubo mascherato per mezzo di mille orpelli ideologici; abbiamo delirato abbastanza, ora basta. Abbiamo scommesso sul Diavolo e abbiamo perduto; era logico: chi fa un patto col Diavolo resta sempre imbrogliato, alla fine, anche se si era illuso di avere il gioco in mano.
Forse dovremmo ricominciare a scommettere su noi stessi, una buona volta, a metterci in gioco: senza più formule preconfezionate, senza più salvatori a pagamento, senza più bandiere da innalzare per coprire la nostra nudità, la nostra inautenticità, la nostra vigliaccheria.
La strada è chiara: è il rientro in noi stessi, la riassunzione della responsabilità del nostro vivere, il riconoscimento della voce dell’Essere che ci risuona dentro.
Abbiamo dato retta a innumerevoli sirene, abbiamo prestato orecchio a stuoli d’imbonitori.

Proviamo un poco ad ascoltare il richiamo dell’infinito che sale dalle profondità dell’anima…

L'incertezza

La società dell''incertezza



Nel 1929 Sigmund Freud pubblica "Il disagio della civiltà": una impietosa analisi della società moderna che, tra principio di piacere e principio di realtà aveva scelto il secondo. Ovvero l’ordine, la regolazione: "L’uomo civile - scriveva Freud - ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza". Il disagio nasceva, secondo Freud da un eccesso di ordine e dalla sua inseparabile compagna: la morte della libertà.
Freud scriveva della società moderna. Ma se dovessimo scrivere oggi su "
Il disagio della postmodernità", ovvero sul nostro tempo tardo moderno" cosa dovremmo dire? A che cosa rinuncia oggi l’uomo contemporaneo? E quale la fonte del disagio odierno?
Sono queste le domande a cui tenta rispondere Zygmund Bauman nei saggi contenuti nel volume 
"La società dell’incertezza".

1. Il disagio postmoderno
A 70 anni dall’analisi di Freud "la libertà individuale - scrive Bauman - regna sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata" (pag 9).Siamo nel tempo della deregulation dove il principio di piacere regna sovrano. Così: "gli uomini e le donne postmoderni scambiano una parte delle loro possibilità di sicurezza per un po’ di felicità". E "il disagio della postmodernità nasce da un genere di libertà nella ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale".
Da qui il confronto con il disagio dei nostri progenitori moderni: "Se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguono la sicurezza, l’insonnia e gli incubi infestano le notti di chi persegue la libertà. In entrambi i casi, la felicità va perduta" (pag. 10).

2. Dalla libertà all’incertezza
Ogni gioco prevede vincitori e vinti (e sul gioco segnalo un bel volume - paradossale e freudiano sin dal titolo - del filosofo Pier Aldo Rovatti: Il paiolo bucato, Milano, Cortina, 1998).
Ma nel gioco della libertà - segnala argutamente Bauman - le cose si fanno più complesse: "Chi ha perso si consola con la speranza di vincere la prossima volta, mentre la gioia del vincitore è offuscata dal presentimento della perdita". Per entrambi la libertà significa che nulla è stabile ma tutto è incerto. Ma l’incertezza è portatrice di messaggi differenti: ai perdenti dice che non tutto è ancora perduto (così continuano a giocare trasformandosi in carnefici di se stessi), mentre ai vincenti sussurra che ogni trionfo è precario.

3. Catalogo delle paure postmoderne
Uno dei saggi di Bauman indaga la tipologia delle paure postmoderne. Come si sa Michel Foucault - sulle orme del Panopticon di Jeremy Bentham - sostiene che tutte le istituzioni della modernità erano fabbriche dell’ordine e della certezza. Si trattasse di scuole, ospedali, eserciti, il loro ruolo era definire l’idoneità sociale degli individui e, in caso di inidoneità, doveva provvedere a isolare tali individui in apposite istituzioni totalitarie (manicomi, prigioni, ecc).
Nel tempo della postmodernità non esistono più istituzioni simili o, perlomeno, quelle esistenti sono attraversate da mortali metastasi.
Oggi l’incertezza non viene più vinta dalla fabbriche dell’ordine della modernità ma deve essere vinta da ogni individui con i propri mezzi: il timore della devianza (oggi non esiste più devianza: non esistendo più alcun faro dell’ordine tutto è permesso) è sostituito dalla paura della inadeguatezza. Inadeguatezza che significa: incapacità di acquisire la forma e l’immagine desiderate, difficoltà di rimanere sempre in movimento. Difficoltà a mantenersi sempre flessibili e pronti ad assumere modelli di comportamento differenti, di essere allo stesso tempo argilla plasmabile e abile scultore.
Tra le conseguenze del venir meno delle figure del sovraintendente, del capo, dell’insegnante (clasiche figure dell’ordine moderno) la più importate riguarda il fatto che con loro sparisce anche la loro capacità di liberare dal peso della responsabilità. Se spariscono le fabbriche ed i sacerdoti dell’ordine ognuno è responsabile di se stesso, delle sue azioni. Ogni individuo diventa "controllore di se stesso". Certo: tutti sono liberi, libero nella prigione che si è costruito lui stesso.

4. Dall’incertezza alle generose offerte del mercato
Per concludere questo passaggio: alla privatizzazione della gestione dell’incertezza corrisponde la forza del mercato. Se infatti io mi sento inadeguato - personalmente inadeguato - sarò certamente ansioso di cogliere le molteplici proposte che il mercato mi fa al fine di poter migliorare la mia adeguatezza. Proposte che - stavolta - raccolgo spontaneamente, senza alcuna coercizione esterna e senza nessuna opera di indottrinamento ad opera di altri.
Esempio semplice semplice: se io mi sono sentito inadeguato quando 15 anni fa ho capito che l’informatica avrebbe cambiato radicalmente il mondo non ho avuto bisogno di nessuna coercizione esterna per decidere di spendere moltissime risorse personali per assumere competenza in questo campo. O ancora: se percepisco che il mio cellulare è inadeguato (ovvero che, ad esempio, sono tagliato fuori dal mondo a causa del fatto che il mio tacs non spedisce messaggi) sarò io stesso che correrò a cercare un nuovo telefonino che migliori la mia adeguatezza al mondo. E... guarda caso.... di questi telefonini ve ne sono sul mercato a centinaia. E tantissimi di diversi ce ne saranno fra un mese, o due, o tre. Giusto per non fermarsi, per dover costringermi a continuare a cercare sensazioni nuove..
Gli esempi che fa Bauman sono altri e riguardano in particolare il corpo (a cui dedica un intero saggio: il corpo come compito). Corpo che non deve più essere abile al lavoro (come avveniva nel tempo moderno e come ancora si ostinano a certificare gli uffici di leva: abile e arruolato, oppure "revisione" - come le automobili!!! - o riformato - che fa rima con riformatorio....: tanto per dire come le fabbriche dell’ordine siano sopravvissute alla fine del loro tempo) ma deve essere un capace recettore di sensazioni. Da qui la legge del fitnes, della palestra (dove ci si auto-tortura per raggiungere una forma adeguata: cose che se te le fa fare l’insegnante di educazione fisica minimo lo ammazzi...), della necessità di accogliere e assimilare nuove stimolazioni, di fare raccolta di sensazioni. Sensazioni che vanno sempre rinnovate: non ci si può fermare mai, al punto che, contraddittoriamente, il fine diventa la ricerca delle sensazioni per le sensazioni non per quello che ognuna di essa sarebbe capace di offrire. Da qui le corse insensate, il non fermarsi mai, il non gustare nulla, il correre, il "farsi" (.... altro giorno ascoltavo furtivamente i discorsi di un gruppo di amici che si scambiavano le impressioni sulle vacanze. Uno dice: "in 6 giorni ci siamo fatti Germania, Olanda, Francia e Svizzera". Ve li immaginate? E immagino che il tutto sia stato rigorosamente filmato e fotografato per una serata con amici in cui iniziare a programmare come farsi il prossimo viaggio - trip?-). Insomma, la figura del turista (a cui Bauman dedica il saggio "Da pellegrino a turista" riprendendoargomentazioni su cui ci siamo già soffermati

5. Libertà: mia o altrui?
Scrive Bauman: "una conseguenze universalmente riconosciuta della progressiva emancipazione della libertà individuale di scelta (deregulation), è la divisione sempre più profonda fra i ricchi e chi non possiede nulla" (pag. 18).
Abbiamo più volte ragionato - durante i nostri compiti per le vacanze - su questo tema. Ovvero sulle conseguenze della deregulation e in particolare sulla crisi dello stato sociale(cfr. Bordieu), oppure il rapporto 10 dell’
UNDP). Del resto quotidianamente sentiamo dire che tutto può risolversi "privatizzando", "liberalizzando", ecc. anche se questo comporta un aumento della povertà da cui difficilmente potranno difenderci le nostre porte doppiamente blindate.

6. Libertà, Differenza, Solidarietà
A partire da questo dato Bauman compie due significative riflessioni:
a. Tagliare e restringere le libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero: al contrario, sottrae a molti altri la possibilità di sentirsi liberi... La strada dei tagli al welfare può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi: anzi per le esigenze della libertà, è come imboccare un vicolo cieco. La libertà individuale di chi è già libero non guadagna molto, in termini di risorse, da questa eliminazione. L’unico esito assicurato sembra essere la percezione di una sensazione sempre più universale e condivisa di insicurezza e incertezza. Dimenticando che la libertà di chi è libero richiede, per così dire, la libertà di tutti poiché la libertà è una relazione sociale. (pp. 18-19)
b. Quale politica è necessaria nel tempo della postmedernità? La risposta di Bauman è illuminante: "La politica che si ispira alla saggezza postmoderna si orienta verso una continua ri-affermazione del diritto degli individui liberi a perpetuare e garantire le condizioni della loro libertà. Ma per fare questo ha bisogno di essere guidata dal triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà ove solidarietà è la condizione necessarie e il contributo collettivo essenziale alla vitalità della libertà e della differenza. Ma se il mondo postmoderno è capace di generare da se stesso Libertà e Differenza lo stesso non si può dire per la Solidarietà. Ma senza solidarietà nessuna libertà è sicura mentre le differenze e il tipo di politica dell’identità che tendono a generare conducono, non di rado, alla interiorizzazione dell’oppressione.
Qui sta il paradosso della postmodernitàper realizzare appieno libertà e differenza essa necessita di solidarietà. Di responsabilità di fronte al volto dell’Altro. L’Altro che ci è sempre straniero (e allo straniero Bauman dedica due saggi: La produzione e l’annullamento dello stranieroLo straniero rivisitante e rivisitato)

Solo così l’incertezza e l’inquietudine postmoderne potranno - forse - sedarsi.

Dal Pianto

Dal pianto




Piove senza indulto
Quando sorridi e quando sei triste
Piove in me e dappertutto
Sono pianti di nostalgia e di paure!


Le lacrime bagnano tutto!
Il pianto esiste anche quando non vuoi
Sono sentimenti, reazioni, perplessità…
L’essere te stesso con gli altri per quanto puoi!


L’alterità personale o sociale
Sono ombre che ti avvolgono da lontano
Rivoluzioni di un cuore vivo e spezzato
Lezioni di forme plurali del doveroso pianto!


Scuola di attese e di biografie
Gesti spontanei di luci che vadano e vengono;
Casa di memoria e di fiorita umanità
Pianto quotidiano d’identità strappata!


L’identità tra frammenti di mondi diversi
Incertezze sull’avvenire e sul destino
Desideri divisi e sguardi che si lasciano
Pianto per l’incontro e per la partita!


Partire è sempre mettersi a rischio
Sognare è abbracciare lo sconosciuto
Camminare è viaggiare per altri orizzonti
Piangere è dispiacersi della primavera finita!


Jorge Ribeiro

Italia, giugno 2013-06-03

Pra se pensar ....

Desespero anunciado

Desespero anunciado Para que essa agonia exorbitante? Parece que tudo vai se esvair O que se deve fazer? Viver recluso na pr...