1Corinzi 13
Il cap. XIII è stato chiamato, con ragione, l'inno della Carità. «Tutto intorno s'ode il rumore dell'argomentazione e della riprensione; ma qui tutto è calma; le frasi incedono con ritmica melodia. Dinanzi al subitaneo mutar dello stile, ci par di vedere l'amanuense dell'Apostolo che si ferma e, levati gli occhi sul maestro, ne vede illuminato il volto, come fosse quello di un angelo, mentre davanti ad esso passa la visione della perfezione divina» (Stanley). «questo inno trionfale è doppiamente bello nella bocca dell'Apostolo Paolo, poichè se l'amore è il tema costante di Giovanni, Paolo è piuttosto il predicatore della fede. Certo, nella vecchia sua natura, egli ignorava del tutto la potenza di questo amore» (Olshausen).
L'eccellenza superiore della Carità viene contemplata e descritta sotto vari aspetti.
1)
1Corinzi 13:1-3: Posta in confronto coi doni più ricchi, la sua eccellenza emerge dal fatto che, senza di essa, l'uomo meglio dotato non ha valore morale.
2)
1Corinzi 13:4-7: Considerata in sè stessa, la sua eccellenza risulta dal fatto che essa è un vero compendio di perfezione morale.
3)
1Corinzi 13:8-12: Considerata nella sua durata, la eccellenza della carità rivelasi nella natura permanente, anzi eterna di essa.
4)
1Corinzi 13:13: Perfino quando la si confronti colle maggiori virtù cristiane, essa appare ancora la più grande fra tutte.
Nell'istituire un confronto tra i carismi e la carità, Paolo comincia dal dono che i Corinzi ammiravano oltremisura: quello delle lingue.
Quando parlassi le lingue degli uomini e degli angeli
quando, cioè, io possedessi al più alto grado questo dono, così da parlare, non solo occasionalmente qualcuna fra le lingue terrestri, ma tutte quante; anzi, quand'anche io parlassi le lingue (dato pur che fossero molte) degli esseri celesti; quand'anche potessi, fin da questa terra, esprimermi nella lingua che la famiglia di Dio adoprerà nel cielo
2Corinzi 12:4;
se non ho carità, sono ridotto ad essere
(lett. son divenuto)
un rame risonante o un cembalo squillante.
La parola si può rendere amore o carità. Per esprimere l'amore terreno, i Greci avevano però un'altra parola. L'amore del prossimo derivante dall'amor di Dio è puro, disinteressato, sollecito del bene vero degli altri, pronto al sacrifico. Ad indicare come l'amore cristiano rivesta carattere ben distinto, conserviamo qui il termine «carità», nonostante l'abuso che anche di questa parola si è fatto col ridurla ad essere un sinonimo di elemosina. Senza il sentimento dell'amor di Dio e del prossimo ch'è l'anima della sua vita cristiana, Paolo sente che quand'anche parlasse tutte le lingue possibili, invece d'essere un organo vivente dello Spirito per glorificar Gesù e salvare gli uomini, non sarebbe più che un istromento inanimato che rende un suono squillante quando è percosso. La sua parola non sarebbe più l'effusione d'un cuor riconoscente che vibra sotto l'azione dello Spirito, ma sarebbe un vano romore, simile al suono d'un pezzo di rame qualunque o a quello che dànno i piatti sbattuti l'un contro all'altro per accompagnare la grancassa. «Non la lingua volubile, ma il cuore caritatevole è accetto presso Dio» (Henry).
2 E quando avessi [il dono] di profezia,
e conoscessi tutti i misterii
cioè i segreti disegni di Dio, le varie parti del piano suo riguardo all'umanità
1Corinzi 2:7; 4:1,
ed avessi tutta la conoscenza:
Questi tre ultimi doni formano un gruppo che si riferisce alla conoscenza della verità per via di rivelazione o di semplice direzione dello Spirito; quello che segue si connette, colle varie operazioni miracolose:
e quando avessi tutta la fede,
Il più alto grado, di quella fede che opera i miracoli
1Corinzi 12:9
così da trasportare i monti,
se non ho carità, non son nulla.
Ho molte cose, ma non
son nulla; sono una nullità morale agli occhi miei ed agli occhi di Dio. Gesù ha parlato della possibilità di profetizzare e di far miracoli nel nome suo, e di finire poi coll'esser riprovati come operatori d'iniquità
Matteo 7:21-23. «Ecco il frutto di tutti quei magnifici doni: tutto dire, tutto sapere, tutto potere, e non esser nulla!» (Godet).
3 E quando io distribuissi in nutrire [i poveri] tutti i miei beni e quando facessi sacrificio del mio corpo per essere arso
se non ho carità, ciò non mi giova nulla
ovvero: «Non ne ricevo alcun giovamento». Il sacrificio della vita, specie se fra i tormenti, è il massimo che un uomo possa fare ed è perciò mentovato come il grado più alto al quale possa arrivare il dono che si esplica nelle assistenze varie ai poveri, ai malati, ecc. Il far la carità, come si suol dire, e il farla nel modo più largo che si possa immaginare, non giova, se non si ha nel cuore la carità. Si possono dare i beni e perfino la vita, o per averne gloria presso agli uomini, o per acquistar meriti presso a Dio, ma ogni sacrificio che ha per movente l'egoismo, è perduto per quel che ci concerne. «Il dar via tutto quel che abbiamo, mentre rifiutiamo il cuore a Dio, non giova». Una variante che trovasi nei tre più antichi Msc. porta invece di «per essere arso»: «per menarne vanto» (kauchswmai). Si tratta di una spiegazione marginale che si è sostituita al testo.
Volendo dare un'idea della suprema perfezione morale della carità considerata in sè stessa ed all'infuori di ogni confronto coi carismi, l'Apostolo la personifica; e descrive poi, in quindici pennellate, qual'è il di lei modo d'agire e di sentire. L'ideale realizzato dell'amore, gli uomini l'hanno potuto, d'altronde, contemplare in Gesù.
La carità è longanime,
è lenta all'ira, paziente di fronte alle provocazioni;
la carità è benigna,
piena di bontà, di benivoglienza che si traduce in ogni sorta di buone azioni, di amorevoli servizii. Longanimità è carattere passivo dell'amore; benignità è il lato attivo.
La carità non invidia,
non prova dispiacere per il bene goduto dagli altri; per i loro doni od onori, perchè li ama; come potrebbe segretamente desiderare il male altrui chi ha l'animo volto a far loro del bene?
non si vanta
o non è millantatrice. «il vantar la propria superiorità allontana e divide, mentre l'amore unisce» (Beet). Chi è proclive a vantar sè stesso, lo è del pari a disprezzar gli altri, a non render loro giustizia. (Cfr.
Filippesi 2:3). Altri traducono: «non procede perversamente» (Diod.), «non è arrogante», «non è presuntuosa», «non è temeraria», ecc.; ma il senso della parola originale (perpereuetai) meglio accertato e più conforme al contesto è quello dianzi notato.
Non si gonfia
d'orgoglio.
5 Non agisce in modo sconveniente,
ma osserva la dovuta decenza, i dovuti riguardi e la cortesia. Non tratta nè con disprezzo nè con modi villani, come accade a chi è gonfio di sè.
Non cerca il proprio [interesse]
o esclusivo vantaggio, non lo cerca a scapito degli altri, come ad esempio, facevano i Corinzi noncuranti dei loro fratelli deboli. Egoismo e carità si escludono a vicenda
1Corinzi 10:33;
Filippesi 2:21.
Non s'inasprisce.
L'irritazione carnale, o l'irascibilità, deriva da soverchia e puntigliosa sensibilità, quando si tocca alla nostra dignità (cfr.
Atti 23:3 con
Giovanni 18:22-23). Chi ama non può a lungo tenere il broncio, o albergar la collera.
Non pensa a male
ossia non attribuisce a motivi perversi il male fatto da altri, ed in genere non sospetta nè vuol vedere dovunque il male. In favore di questo senso del verbo logizomai si può citare
1Corinzi 13:11 e Filippesi 4:8: «A queste cose pensate». Va però notato che il senso più ordinario del verbo con un complemento oggetto è quello di «imputare», «portare in conto». Stando a questo significato, si avrebbe da intendere: La carità non tiene un conto esatto dei torti ricevuti: non serba rancore; ma è disposta a dimenticare, a rimettere i debiti, a pregare come Gesù: Padre, perdona loro...
Atti 7:59.
6 Non si rallegra dell'ingiustizia, ma si rallegra con la verità.
Per quanto le colpe altrui, specie se si tratti di nemici, possano soddisfare il nostro amor proprio o tornarci vantaggiose, siccome il male morale offende Dio e perde il prossimo, la carità non si può rallegrare mai dell'iniquità. Quando invece incontra la rettitudine, la sincerità, la verità nella vita morale, se ne rallegra, anche se si tratta di un avversario, poichè il bene onora Dio
Atti 10:35.
Veritàs'intende meglio in senso morale, come contrapposto d'ingiustizia, che non della verità teorica. Più che di verità conosciuta, si tratta di verità vissuta
Giovanni 3:21;
1Giovanni 1:6;
3Giovanni 3.
7 Sopporta ogni cosa,
le difficoltà, le fatiche, le privazioni, le delusioni, i trattamenti atti a far perdere la pazienza. Tale il senso del verbo greco stegei nel N. T. Cfr.
1Corinzi 9:12;
1Tessalonicesi 3:1,5. Alcuni preferiscono l'altro significato del verbo e rendono «
copre ogni cosa», cioè copre i falli d'un velo di misericordia scusandoli
1Pietro 4:8.
Crede ogni cosa.
«Naturalmente codesta fede non va che fino al punto ove la ferma la vista, scoprendole chiaramente il contrario di quel bene ch'ella amava supporre. Ma, anche in quel caso, non è finito il compito della carità. Dove non può più credere, spera ancora.
Spera ogni cosa.
Pur constatando con dolore il trionfo attuale del peccato, conserva la speranza della futura vittoria del bene. Ed in questa generosa speranza ella non si stanca» (Godet):
Sostiene ogni cosa
La terza eccellenza della carità sta nel suo carattere duraturo, eterno.
La carità non iscade giammai.
Il testo emend. dice lett. «non cade giammai». Il verbo si applica al cader delle foglie, all'appassir dei fiori, ecc. La carità è un sempreverde che perdura oltre ai gelidi venti della terra ed all'inverno della morte. I carismi cesseranno, ma sopravviverà la carità. Tre esempi del carattere passeggero dei doni, nella lor forma presente, vengono addotti dall'Apostolo.
Mentre, sta [che si tratti di] profezie,
del dono nelle sue varie forme,
esse saranno abolite
perchè non più necessarie;
sia [che si tratti di] lingue
del dono delle lingue,
esse cesseranno.
Questo carisma dovendo servir di «segno, non ai credenti ma ai non credenti»
1Corinzi 14:22, esso avrà perduta ogni utilità nel mondo avvenire ove d'altronde non esisterà più la diversità dei linguaggi; ed anche nella presente economia, una volta saldamente stabilita la Chiesa cristiana, questo dono, insieme a molti altri, diventerà sempre meno necessario.
Sia che si tratti di conoscenza, essa sarà abolita.
Dalla spiegazione che segue, si vede che Paolo non vuol parlare nè della facoltà di conoscere, nè della conoscenza in sè stessa nel senso assoluto; bensì del dono di conoscenza quale esiste attualmente, imperfetto, e ristretto a pochi. Sotto quella forma, la conoscenza sarà abolita; ma per far posto a qualcosa di più perfetto.
9 Infatti, conosciamo in parte ed in parte profetizziamo.
Quel tanto della verità divina che arriviamo a contemplare per via di studio e riflessione, ovvero per via di rivelazione diretta dello Spirito, è cosa sempre parziale. L'occhio nostro abbraccia solo una parte dell'infinito campo della conoscenza ed anche quella parte la conosciamo solo imperfettamente.
10 Ma quando sarà venuta la perfezione, quello ch'è parziale sarà abolito.
La perfezione della conoscenza verrà nello stato futuro ed abolirà la conoscenza parziale dello stato presente in quella guisa che l'apparir del sole rende inutile la luce della lampada.
Quand'io ero fanciullo, io parlava come fanciullo, io pensavo come fanciullo, io ragionavo come fanciullo; quando sono divenuto uomo, ho abolito le cose da fanciullo.
Lo stato presente del cristiano per quanto riguarda la conoscenza e la comunicazione di essa, è paragonato a quello del bambino quando la sua mente riceve le prime nozioni, e su quelle comincia a lavorare esprimendo le sue idee con linguaggio adatto alla sua età. Col crescere degli anni si allargano ed arricchiscono le nozioni, si matura il raziocinio, il linguaggio diventa più perfetto, si lascia gradatamente quel ch'era proprio del fanciullo - lo si abolisce come cosa che non serve più. A questo stato di maturità è assomigliato lo stato di perfezione futura in cui la parziale conoscenza del presente parrà cosa da fanciullo.
12 Perciocchè noi vediamo, al presente, per mezzo di specchio, in modo oscuro; ma allora, [vedremo] a faccia a faccia.
La conoscenza è un
veder della mente, ma nello stato attuale quella vista è indiretta e non ben chiara e distinta. Per cui, la paragona a quella che si può avere delle cose per mezzo dell'immagine che se ne riflette in uno specchio di metallo lucido, com'erano quelli del tempo. Aggiunge lett. «in enimma» o «con un enimma». Propriamente,
l'enimma è un detto oscuro che accenna alle cose in modo non facile ad intendere. Viene a dire: in un modo oscuro. Si confr.
Numeri 12:8, ove si legge nella LXX: «a vista, e non per mezzo di enimmi». Conosciamo Dio, al presente, per mezzo delle sue opere e per mezzo della rivelazione; ma questa è pur sempre una conoscenza imperfetta, da non mettersi a paragone con quella che avremo di Lui quando saremo alla sua presenza immediata, e lo vedremo a faccia a faccia.
Al presente conosco in parte, ma allora conoscerò appieno
(senso del verbo composto),
come sono stato appieno conosciuto
da Dio fin nei più ascosi segreti dell'essere mio. Un sì alto ideale di conoscenza futura è atto a darci coraggio mentre la nostra mente si affatica intorno alla soluzione di quei tanti problemi che oltrepassano le nostre capacità attuali.
13 1Corinzi 13:13 La carità è la maggiore delle cose permanenti
Passeranno i carismi, la carità non passa. Ma eziandio fra gli elementi permanenti della vita cristiana, la carità tiene il posto più alto.
Ora queste tre cose sono permanenti: fede, speranza e carità; ma la maggiore di esse è la carità.
L'
ora (nuni) che principia la frase viene preso da alcuni in senso temporale: «al presente». Ma, al presente durano anche i doni. La particella s'intende meglio nel suo senso logico: Posto così che i doni hanno da cessare, ci sono però degli elementi della vita e del carattere cristiano che hanno una durata superiore ai doni, delle virtù che perdurano fino nella eternità, quali la fede, la speranza e la carità. Si domanda come si può conciliare l'affermazione del carattere permanente della fede e della speranza, con altre dichiarazioni da cui sembra risultare che la fede e la speranza cesseranno quando vengano trasformate in vista ed in possesso delle cose credute e sperate
2Corinzi 5:7;
Romani 8:24;
Ebrei 11:1. Certo che la fede, in quanto ha per oggetto le promesse contenute nella Rivelazione, sarà mutata in vista; ma in quanto ella è un poggiar dell'anima in Dio, un fidare in Lui, un dipender da Lui, durerà eterna. Così pure. Quando la speranza sarà saziata del possesso dei beni sperati, sussisterà pur sempre come tranquilla e sicura aspettazione della continuazione di quel possesso per tutta l'eternità. E d'altronde, Dio non tiene egli in serbo per i suoi, nulla di nuovo nel corso dell'eternità? «Non è una volta per sempre, ma è del continuo che, nella eternità, la fede si trasforma in vista e la speranza in possesso» (Godet).
Però, anche fra le virtù permanenti, la maggiore è la carità, sia perchè, in un senso, essa comprende la fede e la speranza come esisteranno nell'eternità; sia perchè ella costituisce l'essenza stessa del carattere morale di Dio, alla cui immagine l'uomo ha da esser reso conforme
1Giovanni 4:7-8;3:2. Se dunque i Corinzi vogliono seguir la gerarchia divina, cerchino i doni e fra questi i più utili; più ancora dei doni, coltivino le virtù permanenti della vita spirituale, e sopra ogni altra ricerchino la carità.
AMMAESTRAMENTI
1. Dio possiede infinita intelligenza e potenza, ma nella sua morale essenza è amore. Quindi nelle creature formate all'immagine sua, sopra ai doni di conoscenza, di parola, o di volontà, deve regnare sovrano l'amore. La religione che addita l'amore come l'eccellenza morale suprema da ricercare, non può esser che divina. «quando si getti uno sguardo sull'etica pagana, nei suoi migliori saggi, e si osservi quanto frammentaria e monca ella è, come essa glorifichi la vendetta qual dolce e nobil cosa, mentre considera il soffrir con pazienza i torti come una fiacca codardia, in qual luce divina appare la religione che esalta la carità come lo fa questo capitolo! in ogni altra religione o sistema morale manca il fondamento di un così alto carattere e resta ignota la vera sorgente della potenza che fa capaci di tradurlo in pratica nella vita... Chi legge con animo spregiudicato questo capitolo ne riporta l'irresistibile convinzione che chi lo scrisse possedeva il segreto di quell'amore, che unisce tutti i cuori ed avea ricevuto la missione di comunicare agli altri il segreto da lui sperimentato» (Schaff).
2. La grandezza morale e spirituale di un uomo non sta in quello ch'egli ha, ma in quello ch'egli, è. Quante cose si possono avere, senza essere nulla! Beni materiali, intelligenza, scienza, eloquenza, doni miracolosi, ecc., possono arricchire e rendere famoso un mortale che agli occhi di Dio è moralmente vacuo e nullo. Non c'inganni il giudizio incompetente degli uomini che possono lodarci per quel che abbiamo, mentre Dio guarda a quel che siamo. Se vogliam conoscerei, a questo dobbiam volgere l'attenzione.
3. Nel proclamar cosa moralmente vana le opere caritatevoli e perfino i più celebrati eroismi quando il movente di tali atti non sia la carità, Paolo pronunzia un «giudicio assoluto su tutte le opere di propria giustizia, su tutte quelle in cui l'uomo cerca sè stesso» (L. Bonnet). «L'amore ha, come l'Iddio da cui procede, il suo valore in sè stesso ed è quel che dà valore a tutto il resto... Esso è l'essenza più preziosa di tutte le virtù, l'operatore di tutte le opere cristiane. L'amore è quel che v'è d'eterno, di permanente nella vita spirituale» (Besser). L'amore sarà dunque la miglior pietra di paragone che potremo adoprare per giudicare del valore reale della nostra vita spirituale.
4. Nella carità Paolo vede il rimedio migliore alle gelosie, ai mormorii alle scissure, ai partiti che travagliano la chiesa di Corinto. Non è così in ogni famiglia, in ogni chiesa, anzi nella Chiesa universale dell'oggi? quando il sole divino della carità la riscalderà, spariranno dal suo seno le divisioni e le ire; la sua conoscenza, la sua scienza. I suoi doni di parola ed in genere di comunicazione del pensiero, la sua beneficenza e tutta la sua attività saranno santificate per la gloria del Cristo la cui vita fu la carità in atto.
5. Dalla permanenza della fede, della speranza e della carità, si può dedurre che il carattere umano, come perdura attraverso le circostanze più svariate della vita presente, così perdura attraverso la morte ed il giudicio, appunto perchè l'essenza della personalità non muore. «Porteremo, dice il Beet, al di là delle porte della morte quel carattere morale che la lotta della vita avrà sviluppato in noi». Tale il vecchio guerriero che depone bensì le armi, ma non l'impronta speciale del suo carattere.
6. Lo stato presente è stato d'imperfezione anche in coloro che sono più innanzi nella vita spirituale. Imperfetta è la nostra conoscenza per ogni verso, imperfetta la nostra santità, imperfetta la nostra fede e speranza, ed ahi! quanto imperfetta la nostra carità! ma conforta la prospettiva dello stato di perfezione quale ci è fatto intravedere alla fine di questo capitolo. Conosceremo come Dio ci ha conosciuti, vedremo a faccia a faccia, la nostra fiducia nel Padre non conoscerà eclissi, la nostra speranza sarà il sicuro riposo dell'anima nel Dio di perfezione; e sopra ogni cosa giungeremo ad amare perfettamente riflettendo nella nostra natura morale l'eccellenza superna del Dio ch'è amore. Ringraziato sia Iddio per «il dono ineffabile» in grazia del quale dall'inferno del peccato, possiamo essere innalzati fino al regno dell'amor suo! Ricordiamo intanto che si avvicinano maggiormente allo stato della celeste perfezione, coloro nei quali più viva e pura arde quaggiù la fiamma dell'amor cristiano.