Cos'è l'ironia?




L'ironia (dal greco antico εἰρωνεία; eironeía, ovvero: ipocrisia, falsità o finta ignoranza) ha come base e scopo il comico, il riso e finire nel sarcasmo, ma ha assunto anche significati più profondi. Di essi si possono dire tre accezioni:
  1. L'ironia interpersonale o sociale. Per questo tipo di ironia si tratta contemporaneamente di un tema, di una strutturadiscorsiva e di una figura retorica.[1][2][3] È sempre una "etero-ironia", generalmente contingente e situazionale, per cui si ironizza su qualcosa o su qualcuno nel momento in cui se ne parla.
  2. L'ironia psicologica, che implica un tipo di indagine sul comportamento umano, per la quale si fa riferimento aSigmund Freud, il primo che ne ha fatto oggetto di studio sistematico. È già in parte "auto-ironia" nel senso che i fenomeni di cui si occupa e i problemi che pone riguardano la mente umana in generale e quindi anche la psicoanalisi.
  3. L'ironia filosofica, che concerne il rapporto dell'uomo con la realtà extra-umana. È spesso "auto-ironia" perché il soggetto ironizzante è anche direttamente l'oggetto dell'ironia che fa. La filosofica si articola in indirizzi molto differenti, perché i quattro principali identificabili (socraticailluministicaromanticaesistenziale) sono totalmente differenti l'uno dall'altro.
In letteratura, l'ironia è una figura retorica in cui vi è una incongruità, discordanza oppure una involontaria connessione con il vero, che va al di là del semplice ed evidente significato della parola.
L'ironia verbale e situazionale viene spesso usata intenzionalmente per enfatizzare l'affermazione di una verità. La forma ironica della similitudine, del sarcasmo o della litote può includere l'enfasi di un significato mediante l'uso deliberato di una locuzione che afferma l'esatto opposto della verità, o che drasticamente e ovviamente sminuisce una connessione di fatto.

Indice

 

Ironia sociale 

Il modo di ironizzare tipico dello stare in società o in gruppo sta nel rapporto di un soggetto che ironizza con degli ascoltatori o degli interlocutori, per cui il significato, il valore e l'efficacia dell'ironia è in funzione nel contesto in cui la si fa e dell'argomento che viene considerato

Ironia psicologica

Ineludibile il riferimento a Freud per questo tipo di ironia, colui che ne ha fatto oggetto di studio profondo, analizzando i modi e le circostanze in cui un soggetto diventa comico o può esser visto come tale. In questo caso l'analisi, in quanto scientifica, non ha come fine di indurre al riso, ma piuttosto di sensibilizzare alle problematiche connesse alla psiche, alla sua normalità e alle sue anormalità.

Ironia filosofica 

In senso freudiano l'ironia consiste nell'esprimere idee che violano la censura dei tabù. In alcuni casi consiste nel far intendere una cosa mediante una frase di senso esattamente opposto. Ne sono alcuni semplici esempi:

  • "Che bell'auto!" di fronte ad un catorcio
  • "Hai avuto proprio un'idea geniale!" nel caso in cui una decisione abbia avuto effetti disastrosi.
In effetti Freud ha dato al suo concetto di ironia uno spessore ben maggiore che l'avvicina a quella filosofica.
Numerosissimi sono gli utilizzi a cui questa figura retorica e le sue derivazioni si prestano nel mondo della comicità e ancor più specificatamente nella satira.
Il termine generalmente viene associato inoltre al sarcasmo, presentando nella mentalità volgare significati affini se non proprio sinonimi. In realtà i due termini si differenziano molto tra loro.[4]
A questi significati di ironia dove prevale l'elemento psicologico si affiancano quelli filosofici, che sono completamente differenti e semmai più vicini all'auto-ironia. Ma anche l'autoironia non è sempre la stessa. L'ironia di Socrate è un'autoironia finta, perché egli si finge ignorante per meglio mettere poi in difficoltà il dialogante, mentre nel caso diDiderot nel Il nipote di Rameau il filosofo nel confrontarsi con l'ignorante opportunista e senza scrupoli è realmente autoironico. Se questi due casi sono gli estremi di un'ironia filosofica astuta in Socrate e sofferta in Diderot, tra essi si pone una gamma molto vasta di atteggiamenti ironici filosofici, che si caratterizzano sempre per una messa in discussione di ciò che si è o si può essere. Da un lato l'ironia come strumento e dall'altro lato come risultato di una sofferenza esistenziale.

Ironia socratica 

L'ironia socratica[2] consiste storicamente nella pretesa del filosofo Socrate di mostrarsi ignorante in merito ad ogni questione da affrontare, ciò che costringe l'interlocutore a giustificare fin nei minimi dettagli la propria posizione (il che lo conduce sovente a rilevarne l'infondatezza ed il carattere di mera opinione). Ciò coerentemente con il metodo socratico, che conduce l'interlocutore a trovare da solo le risposte alle proprie domande piuttosto che affidarsi ad una autorità intellettuale in grado di offrire risposte preconfezionate.

La parola greca eirōneía si riferisce appunto ad una tale dissimulazione, che Socrate eleva a metodo dialettico. Essa implica l'assunzione di una posizione scettica, un atteggiamento di rifiuto del dogma e di ogni convinzione che non basi la sua validità sulla ragione.

Influenza culturale 

Nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco viene affrontato il tema dell'ironia definendola "figura di pensiero", che "si deve sempre usare facendola procedere dalla pronunciatio, che ne costituisce il segnale e la giustificazione".

Note [modifica]

  1. ^ Maria Cerullo, L'ironia, il comico e la “sospensione di senso” ne 'La Maison Tellier' di Maupassant, Bouquets pour Hélène, 1, 2007-02-05, [1]
  2. ^ a b KierkegaardIl concetto d'ironia in costante riferimento a Socrate, tesi pubblicata nel 1841
  3. ^ Ph. Hamon, L'Ironie littéraire, Parigi, Hachette, 1996.
  4. ^ una distinzione da prendersi in considerazione la propone Stefano Floris in L'Ironia, ovvero la filosofia del buonumore, Marco Valerio Edizioni, 2003

IL DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA




Il breve scritto Il discorso sulla servitù volontaria (circa trenta pagine) fu composto da La Boétie, secondo Montagne, a soli 16 anni (in un edizione precedente dei suoi Essais, Montaigne indica 18), ma più probabilmente nel 1552-53.
Fu fatto circolare ampiamente da La Boétie, tanto che lo stesso Montaigne afferma di averlo letto prima di conoscerne personalmente l’autore.
Il Discorso sarà pubblicato, anziché da Montaigne, nella raccolta di scritti antimonarchici Memorie degli Stati di Francia sotto Carlo IX, con il titolo Contr’uno con cui divenne noto.
Questa pubblicazione non è del tutto fedele, ma contiene alcune interpolazioni e inserimenti, dei quali la prova maggiore è fornita dalla citazione della Franciade di Ronsard pubblicata nove anni dopo la morte di La Boétie. Secondo alcuni storici, questi inserimenti sarebbero opera dello stesso Montaigne; tanto che lo storico francese Armingaud, ai primi del ‘900, arriva a sostenere che il testo sia interamente opera di Montaigne. Ipotesi non condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi; la paternità dell’opera rimane così attribuita a La Boétie.
Il testo costituì un punto di riferimento inizialmente per l’opposizione calvinista alla monarchia cattolica, successivamente per la opposizione contro l’Ancien Régime che scaturì nella Rivoluzione Francese, in seguito per la protesta repubblicana contro la Restaurazione attuata al congresso di Vienna, ed infine per la politica socialista e rivoluzionaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed in particolare per la sua corrente libertaria.
La carica libertaria del Discorso è stata dunque utilizzata per la critica di regimi tra loro molto diversi, dalla monarchia feudale fino allo stato borghese liberale, testimoniando così di conservare la sua validità in ogni tempo, compreso l’attuale, rivolgendosi contro la tirannia in sé, indipendentemente dalle forme storiche che essa assume.
Il Discorso si fonda su due pilastri. Il primo, che dà il titolo all’opera, è costituito dall’idea che la tirannia non sia imposta, ma consensualmente accettata dal popolo, il quale si trova quindi in una situazione di servitù volontaria, ossia accetta volontariamente di sottomettersi al tiranno. La Boétie critica dunque la concezione classica della filosofia politica, ancora oggi molto diffusa, che considera le catene della servitù unidirezionali, e dunque il problema posto da questa semplicisticamente risolvibile attraverso la rottura delle catene stesse; ottenuta la quale, gli individui sarebbero automaticamente liberi, come se solo la volontà malefica del sovrano fosse causa della loro sorte, alla quale essi non contribuiscono in alcun modo.
La Boétie, al contrario, afferma che, accanto al naturale e innato desiderio di libertà, vi sia negli uomini anche un oscuro desiderio di servire:

«è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo […] Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?».

Il carattere volontario della servitù è dimostrato dal fatto che basterebbe desiderare essere liberi per diventarlo:

«questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne sarebbero liberi. È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. […] se per avere la libertà basta desiderarla, se c’è solo bisogno di un semplice atto di volontà, quale popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola ottenere solo con un desiderio […] ?».

Il popolo è dunque complice del proprio asservimento:

«Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?».

Come è possibile, quindi, si chiede La Boétie, che gli uomini accettino di sottomettersi al tiranno?
Innanzi tutto questa domanda porta La Boétie ad allargare il concetto di tirannia. Tiranno non è semplicemente l’Uno della monarchia assoluta, ma qualsiasi corpo politico che elimini il carattere pubblico del potere per utilizzarlo in modo da imporre agli altri la propria volontà ed i propri interessi; indipendentemente dal modo in cui questo potere è ottenuto, fosse anche attraverso il suffragio popolare.

«Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista. Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile».

Tornando alla domanda di cui sopra, La Boétie elenca i mezzi attraverso i quali i sovrani suscitano la volontà di servire, per ottenere il consenso necessario ad ogni regime, ancorché tirannico.
Il primo di questi mezzi è l’abitudine:

«certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati […] È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù. È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita. Non si può dire che la natura non abbia un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso o nell’altro; ma bisogna altresì confessare che ha su di noi meno potere della consuetudine: infatti l’indole naturale, per quanto sia buona, si perde se non è curata; e l’educazione ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia, malgrado l’indole. I semi del bene che la natura mette in noi sono così piccoli e fragili da non poter sopportare il minimo impatto di un’educazione contraria; si conservano con più difficoltà di quanto si rovinino, si disfino e si riducano a niente». Benché dunque l’indole umana sia libera, l’abitudine ha sugli individui effetti maggiori che non la loro indole, e così essi accettano la servitù se sono sempre stati educati come schiavi: «La natura dell’uomo è proprio di essere libero e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione».

Il secondo mezzo, essendo il primo alla lunga insufficiente, consiste nell’abbrutimento del popolo. La servitù di per sé porta a un infiacchimento dell’individuo, ed i tiranni, accorgendosene, operano per incrementare tale effetto. Innanzi tutto ostacolando la diffusione della cultura, giacché i libri e l’istruzione contribuiscono più di ogni altra cosa, secondo La Boétie, a diffondere la consapevolezza di sé e l’odio per la servitù. Ma soprattutto questo risultato è ottenuto attraverso una strategia da tempo nota come panem et circences:

«i teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche, gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere».

Quanto al panem:

«I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni non si accorgevano che non facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se prima non l’avesse presa a loro stessi».

Un altro strumento è rappresentato dall’atomismo sociale: il potere tirannico fa di tutto per impedire qualunque forma di aggregazione e comunicazione sociale tra coloro che hanno conservato la passione per la libertà. Le uniche associazioni consentite sono quelle che non contestano la tirannia, o che la sostengono.
Gli ultimi due strumenti indicati da La Boétie sono i più importanti. In primo luogo, egli considera tutti i meccanismi volti a creare il massimo consenso possibile intorno allapersona del tiranno.
Tra questi meccanismi, La Boétie considera la pratica di presentarsi al pubblico «il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il dubbio che fossero in qualche cosa più che uomini». In secondo luogo la «favola» dell’origine divina del re, dalla quale deriva la credenza nelle sue capacità taumaturgiche.
Nella misura in cui questa credenza viene meno, diviene importante l’altro meccanismo considerato da La Boétie: quello di presentarsi, da parte del tiranno come rappresentante del popolo e fautore dell’interesse generale:

«gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune».

Il tiranno arriva così a rappresentare l’unità del popolo, e questo si lascia affascinare dal «nome di Uno», appunto perché simboleggia il popolo stesso riunificato sotto il fantasma della propria unità e finalmente liberato dalla propria pluralità.
Infine La Boétie considera lo strumento che egli stesso definisce il fondamento della tirannia. Si tratta della sua stratificazione gerarchica:

«non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […].Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita».

La Boétie è dunque ben lungi dall’attribuire il desiderio di servire ad un presunto carattere irrazionale delle folle, od alla stupidità popolare. Al contrario, il fondamento della tirannia è assolutamente razionale, essendo dato da un meccanismo che diffonde gerarchicamente il potere e, per suo tramite, la ricchezza, dando ad un certo numero di individui buone ragioni per obbedire.
Il secondo pilastro su cui si regge il Discorso è dato dalla contrapposizione tra la servitù e lo stato di libertà. Quest’ultimo non solo è storicamente anteriore al primo, che sarebbe frutto di un Malencontre, ma è anche naturale:

«credo che sia fuori dubbio che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. […] di sicuro, se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento, e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno agli altri, abbia voluto lasciar spazio all’affetto, perché avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. […] non bisogna dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni, e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme. […] Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla».

Nel difendere questa concezione naturale della libertà, La Boétie delinea una società fondata sulla libertà e sull’uguaglianza, contrapposta alla dominazione, e realizzata attraverso una relazione sociale antiteca a questa: l’amicizia. I disonesti non sono amici ma complici, non si amano ma si temono. Al contrario, l’amicizia «ha il suo vero terreno di coltura nell’eguaglianza, che non vuole mai contravvenire alla regola, anzi è sempre uguale». Al di là della concezione naturalistica della libertà, La Boétie basa il suo ideale di società su di una relazione istituita di amicizia che consenta il massimo sviluppo possibile di libertà ed uguaglianza.
In conclusione, il Discorso, benché scritto 450 anni fa, conserva ancora oggi un carattere fortemente attuale. Oltre che per i suoi aspetti teorici, la forza di quest’opera consiste nell’affermare contro ogni tirannia il diritto alla disobbedienza civile: «siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».
Facendo attenzione che ciò non sia per alcuni il pretesto per instaurare una nuova tirannia, diversa nella forma ma identica nella sostanza, di modo che “tutto cambi affinché nulla cambi”. A costoro è giusto che non arrida il successo in quanto «non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie ».
Questo è il messaggio che La Boétie ci manda dal suo testo, in nome della libertà, contro ogni tirannia.

L'eccellenza della carità


1Corinzi 13


1 Sezione B 1Corinzi 13:1-13 LA SUPREMA ECCELLENZA DELLA CARITÀ
Il cap. XIII è stato chiamato, con ragione, l'inno della Carità. «Tutto intorno s'ode il rumore dell'argomentazione e della riprensione; ma qui tutto è calma; le frasi incedono con ritmica melodia. Dinanzi al subitaneo mutar dello stile, ci par di vedere l'amanuense dell'Apostolo che si ferma e, levati gli occhi sul maestro, ne vede illuminato il volto, come fosse quello di un angelo, mentre davanti ad esso passa la visione della perfezione divina» (Stanley). «questo inno trionfale è doppiamente bello nella bocca dell'Apostolo Paolo, poichè se l'amore è il tema costante di Giovanni, Paolo è piuttosto il predicatore della fede. Certo, nella vecchia sua natura, egli ignorava del tutto la potenza di questo amore» (Olshausen).
L'eccellenza superiore della Carità viene contemplata e descritta sotto vari aspetti.
1) 1Corinzi 13:1-3: Posta in confronto coi doni più ricchi, la sua eccellenza emerge dal fatto che, senza di essa, l'uomo meglio dotato non ha valore morale.
2) 1Corinzi 13:4-7: Considerata in sè stessa, la sua eccellenza risulta dal fatto che essa è un vero compendio di perfezione morale.
3) 1Corinzi 13:8-12: Considerata nella sua durata, la eccellenza della carità rivelasi nella natura permanente, anzi eterna di essa.
4) 1Corinzi 13:13: Perfino quando la si confronti colle maggiori virtù cristiane, essa appare ancora la più grande fra tutte.
1Corinzi 13:1-3 I doni e la carità
Nell'istituire un confronto tra i carismi e la carità, Paolo comincia dal dono che i Corinzi ammiravano oltremisura: quello delle lingue.
Quando parlassi le lingue degli uomini e degli angeli
quando, cioè, io possedessi al più alto grado questo dono, così da parlare, non solo occasionalmente qualcuna fra le lingue terrestri, ma tutte quante; anzi, quand'anche io parlassi le lingue (dato pur che fossero molte) degli esseri celesti; quand'anche potessi, fin da questa terra, esprimermi nella lingua che la famiglia di Dio adoprerà nel cielo 2Corinzi 12:4;
se non ho carità, sono ridotto ad essere
(lett. son divenuto)
un rame risonante o un cembalo squillante.
La parola si può rendere amore carità. Per esprimere l'amore terreno, i Greci avevano però un'altra parola. L'amore del prossimo derivante dall'amor di Dio è puro, disinteressato, sollecito del bene vero degli altri, pronto al sacrifico. Ad indicare come l'amore cristiano rivesta carattere ben distinto, conserviamo qui il termine «carità», nonostante l'abuso che anche di questa parola si è fatto col ridurla ad essere un sinonimo di elemosina. Senza il sentimento dell'amor di Dio e del prossimo ch'è l'anima della sua vita cristiana, Paolo sente che quand'anche parlasse tutte le lingue possibili, invece d'essere un organo vivente dello Spirito per glorificar Gesù e salvare gli uomini, non sarebbe più che un istromento inanimato che rende un suono squillante quando è percosso. La sua parola non sarebbe più l'effusione d'un cuor riconoscente che vibra sotto l'azione dello Spirito, ma sarebbe un vano romore, simile al suono d'un pezzo di rame qualunque o a quello che dànno i piatti sbattuti l'un contro all'altro per accompagnare la grancassa. «Non la lingua volubile, ma il cuore caritatevole è accetto presso Dio» (Henry).
2 E quando avessi [il dono] di profezia,
di cui 1Corinzi 12:10,
e conoscessi tutti i misterii
cioè i segreti disegni di Dio, le varie parti del piano suo riguardo all'umanità 1Corinzi 2:7; 4:1,
ed avessi tutta la conoscenza:
Questi tre ultimi doni formano un gruppo che si riferisce alla conoscenza della verità per via di rivelazione o di semplice direzione dello Spirito; quello che segue si connette, colle varie operazioni miracolose:
e quando avessi tutta la fede,
Il più alto grado, di quella fede che opera i miracoli 1Corinzi 12:9
così da trasportare i monti,
secondo l'immagine adoperata da Cristo Matteo 17:20; 21:21;
se non ho carità, non son nulla.
Ho molte cose, ma non son nulla; sono una nullità morale agli occhi miei ed agli occhi di Dio. Gesù ha parlato della possibilità di profetizzare e di far miracoli nel nome suo, e di finire poi coll'esser riprovati come operatori d'iniquità Matteo 7:21-23. «Ecco il frutto di tutti quei magnifici doni: tutto dire, tutto sapere, tutto potere, e non esser nulla!» (Godet).
3 E quando io distribuissi in nutrire [i poveri] tutti i miei beni e quando facessi sacrificio del mio corpo per essere arso
come si legge dei compagni di Daniele Daniele 3:23 e dei sette fratelli il cui martirio è narrato in 2Maccabei 7.
se non ho carità, ciò non mi giova nulla
ovvero: «Non ne ricevo alcun giovamento». Il sacrificio della vita, specie se fra i tormenti, è il massimo che un uomo possa fare ed è perciò mentovato come il grado più alto al quale possa arrivare il dono che si esplica nelle assistenze varie ai poveri, ai malati, ecc. Il far la carità, come si suol dire, e il farla nel modo più largo che si possa immaginare, non giova, se non si ha nel cuore la carità. Si possono dare i beni e perfino la vita, o per averne gloria presso agli uomini, o per acquistar meriti presso a Dio, ma ogni sacrificio che ha per movente l'egoismo, è perduto per quel che ci concerne. «Il dar via tutto quel che abbiamo, mentre rifiutiamo il cuore a Dio, non giova». Una variante che trovasi nei tre più antichi Msc. porta invece di «per essere arso»: «per menarne vanto» (kauchswmai). Si tratta di una spiegazione marginale che si è sostituita al testo.
4 1Corinzi 13:4-7 La perfezione della carità in sè
Volendo dare un'idea della suprema perfezione morale della carità considerata in sè stessa ed all'infuori di ogni confronto coi carismi, l'Apostolo la personifica; e descrive poi, in quindici pennellate, qual'è il di lei modo d'agire e di sentire. L'ideale realizzato dell'amore, gli uomini l'hanno potuto, d'altronde, contemplare in Gesù.
La carità è longanime,
è lenta all'ira, paziente di fronte alle provocazioni;
la carità è benigna,
piena di bontà, di benivoglienza che si traduce in ogni sorta di buone azioni, di amorevoli servizii. Longanimità è carattere passivo dell'amore; benignità è il lato attivo.
La carità non invidia,
non prova dispiacere per il bene goduto dagli altri; per i loro doni od onori, perchè li ama; come potrebbe segretamente desiderare il male altrui chi ha l'animo volto a far loro del bene?
non si vanta
o non è millantatrice. «il vantar la propria superiorità allontana e divide, mentre l'amore unisce» (Beet). Chi è proclive a vantar sè stesso, lo è del pari a disprezzar gli altri, a non render loro giustizia. (Cfr.Filippesi 2:3). Altri traducono: «non procede perversamente» (Diod.), «non è arrogante», «non è presuntuosa», «non è temeraria», ecc.; ma il senso della parola originale (perpereuetai) meglio accertato e più conforme al contesto è quello dianzi notato.
Non si gonfia
d'orgoglio.
5 Non agisce in modo sconveniente,
ma osserva la dovuta decenza, i dovuti riguardi e la cortesia. Non tratta nè con disprezzo nè con modi villani, come accade a chi è gonfio di sè.
Non cerca il proprio [interesse]
o esclusivo vantaggio, non lo cerca a scapito degli altri, come ad esempio, facevano i Corinzi noncuranti dei loro fratelli deboli. Egoismo e carità si escludono a vicenda 1Corinzi 10:33Filippesi 2:21.
Non s'inasprisce.
L'irritazione carnale, o l'irascibilità, deriva da soverchia e puntigliosa sensibilità, quando si tocca alla nostra dignità (cfr. Atti 23:3 con Giovanni 18:22-23). Chi ama non può a lungo tenere il broncio, o albergar la collera.
Non pensa a male
ossia non attribuisce a motivi perversi il male fatto da altri, ed in genere non sospetta nè vuol vedere dovunque il male. In favore di questo senso del verbo logizomai si può citare 1Corinzi 13:11 e Filippesi 4:8: «A queste cose pensate». Va però notato che il senso più ordinario del verbo con un complemento oggetto è quello di «imputare», «portare in conto». Stando a questo significato, si avrebbe da intendere: La carità non tiene un conto esatto dei torti ricevuti: non serba rancore; ma è disposta a dimenticare, a rimettere i debiti, a pregare come Gesù: Padre, perdona loro... Atti 7:59.
6 Non si rallegra dell'ingiustizia, ma si rallegra con la verità.
Per quanto le colpe altrui, specie se si tratti di nemici, possano soddisfare il nostro amor proprio o tornarci vantaggiose, siccome il male morale offende Dio e perde il prossimo, la carità non si può rallegrare mai dell'iniquità. Quando invece incontra la rettitudine, la sincerità, la verità nella vita morale, se ne rallegra, anche se si tratta di un avversario, poichè il bene onora Dio Atti 10:35Veritàs'intende meglio in senso morale, come contrapposto d'ingiustizia, che non della verità teorica. Più che di verità conosciuta, si tratta di verità vissuta Giovanni 3:211Giovanni 1:63Giovanni 3.
7 Sopporta ogni cosa,
le difficoltà, le fatiche, le privazioni, le delusioni, i trattamenti atti a far perdere la pazienza. Tale il senso del verbo greco stegei nel N. T. Cfr. 1Corinzi 9:12;1Tessalonicesi 3:1,5. Alcuni preferiscono l'altro significato del verbo e rendono «copre ogni cosa», cioè copre i falli d'un velo di misericordia scusandoli 1Pietro 4:8.
Crede ogni cosa.
«Naturalmente codesta fede non va che fino al punto ove la ferma la vista, scoprendole chiaramente il contrario di quel bene ch'ella amava supporre. Ma, anche in quel caso, non è finito il compito della carità. Dove non può più credere, spera ancora.
Spera ogni cosa.
Pur constatando con dolore il trionfo attuale del peccato, conserva la speranza della futura vittoria del bene. Ed in questa generosa speranza ella non si stanca» (Godet):
Sostiene ogni cosa
con invincibile costanza: le opposizioni, le prove, le persecuzioni, tutto insomma lo sforzo del nemico 2Timoteo 2:9-10Ebrei 12:2; 10:32-36.
8 1Corinzi 13:8-12 La durata eterna della carità
La terza eccellenza della carità sta nel suo carattere duraturo, eterno.
La carità non iscade giammai.
Il testo emend. dice lett. «non cade giammai». Il verbo si applica al cader delle foglie, all'appassir dei fiori, ecc. La carità è un sempreverde che perdura oltre ai gelidi venti della terra ed all'inverno della morte. I carismi cesseranno, ma sopravviverà la carità. Tre esempi del carattere passeggero dei doni, nella lor forma presente, vengono addotti dall'Apostolo.
Mentre, sta [che si tratti di] profezie,
del dono nelle sue varie forme,
esse saranno abolite
perchè non più necessarie;
sia [che si tratti di] lingue
del dono delle lingue,
esse cesseranno.
Questo carisma dovendo servir di «segno, non ai credenti ma ai non credenti» 1Corinzi 14:22, esso avrà perduta ogni utilità nel mondo avvenire ove d'altronde non esisterà più la diversità dei linguaggi; ed anche nella presente economia, una volta saldamente stabilita la Chiesa cristiana, questo dono, insieme a molti altri, diventerà sempre meno necessario.
Sia che si tratti di conoscenza, essa sarà abolita.
Dalla spiegazione che segue, si vede che Paolo non vuol parlare nè della facoltà di conoscere, nè della conoscenza in sè stessa nel senso assoluto; bensì del dono di conoscenza quale esiste attualmente, imperfetto, e ristretto a pochi. Sotto quella forma, la conoscenza sarà abolita; ma per far posto a qualcosa di più perfetto.
9 Infatti, conosciamo in parte ed in parte profetizziamo.
Quel tanto della verità divina che arriviamo a contemplare per via di studio e riflessione, ovvero per via di rivelazione diretta dello Spirito, è cosa sempre parziale. L'occhio nostro abbraccia solo una parte dell'infinito campo della conoscenza ed anche quella parte la conosciamo solo imperfettamente.
10 Ma quando sarà venuta la perfezione, quello ch'è parziale sarà abolito.
La perfezione della conoscenza verrà nello stato futuro ed abolirà la conoscenza parziale dello stato presente in quella guisa che l'apparir del sole rende inutile la luce della lampada.
11 I vers. 1Corinzi 13:11-12 illustrano con due similitudini questa affermazione.
Quand'io ero fanciullo, io parlava come fanciullo, io pensavo come fanciullo, io ragionavo come fanciullo; quando sono divenuto uomo, ho abolito le cose da fanciullo.
Lo stato presente del cristiano per quanto riguarda la conoscenza e la comunicazione di essa, è paragonato a quello del bambino quando la sua mente riceve le prime nozioni, e su quelle comincia a lavorare esprimendo le sue idee con linguaggio adatto alla sua età. Col crescere degli anni si allargano ed arricchiscono le nozioni, si matura il raziocinio, il linguaggio diventa più perfetto, si lascia gradatamente quel ch'era proprio del fanciullo - lo si abolisce come cosa che non serve più. A questo stato di maturità è assomigliato lo stato di perfezione futura in cui la parziale conoscenza del presente parrà cosa da fanciullo.
12 Perciocchè noi vediamo, al presente, per mezzo di specchio, in modo oscuro; ma allora, [vedremo] a faccia a faccia.
La conoscenza è un veder della mente, ma nello stato attuale quella vista è indiretta e non ben chiara e distinta. Per cui, la paragona a quella che si può avere delle cose per mezzo dell'immagine che se ne riflette in uno specchio di metallo lucido, com'erano quelli del tempo. Aggiunge lett. «in enimma» o «con un enimma». Propriamente, l'enimma è un detto oscuro che accenna alle cose in modo non facile ad intendere. Viene a dire: in un modo oscuro. Si confr. Numeri 12:8, ove si legge nella LXX: «a vista, e non per mezzo di enimmi». Conosciamo Dio, al presente, per mezzo delle sue opere e per mezzo della rivelazione; ma questa è pur sempre una conoscenza imperfetta, da non mettersi a paragone con quella che avremo di Lui quando saremo alla sua presenza immediata, e lo vedremo a faccia a faccia.
Al presente conosco in parte, ma allora conoscerò appieno
(senso del verbo composto),
come sono stato appieno conosciuto
da Dio fin nei più ascosi segreti dell'essere mio. Un sì alto ideale di conoscenza futura è atto a darci coraggio mentre la nostra mente si affatica intorno alla soluzione di quei tanti problemi che oltrepassano le nostre capacità attuali.
13 1Corinzi 13:13 La carità è la maggiore delle cose permanenti
Passeranno i carismi, la carità non passa. Ma eziandio fra gli elementi permanenti della vita cristiana, la carità tiene il posto più alto.
Ora queste tre cose sono permanenti: fede, speranza e carità; ma la maggiore di esse è la carità.
L'ora (nuni) che principia la frase viene preso da alcuni in senso temporale: «al presente». Ma, al presente durano anche i doni. La particella s'intende meglio nel suo senso logico: Posto così che i doni hanno da cessare, ci sono però degli elementi della vita e del carattere cristiano che hanno una durata superiore ai doni, delle virtù che perdurano fino nella eternità, quali la fede, la speranza e la carità. Si domanda come si può conciliare l'affermazione del carattere permanente della fede e della speranza, con altre dichiarazioni da cui sembra risultare che la fede e la speranza cesseranno quando vengano trasformate in vista ed in possesso delle cose credute e sperate 2Corinzi 5:7Romani 8:24Ebrei 11:1. Certo che la fede, in quanto ha per oggetto le promesse contenute nella Rivelazione, sarà mutata in vista; ma in quanto ella è un poggiar dell'anima in Dio, un fidare in Lui, un dipender da Lui, durerà eterna. Così pure. Quando la speranza sarà saziata del possesso dei beni sperati, sussisterà pur sempre come tranquilla e sicura aspettazione della continuazione di quel possesso per tutta l'eternità. E d'altronde, Dio non tiene egli in serbo per i suoi, nulla di nuovo nel corso dell'eternità? «Non è una volta per sempre, ma è del continuo che, nella eternità, la fede si trasforma in vista e la speranza in possesso» (Godet).
Però, anche fra le virtù permanenti, la maggiore è la carità, sia perchè, in un senso, essa comprende la fede e la speranza come esisteranno nell'eternità; sia perchè ella costituisce l'essenza stessa del carattere morale di Dio, alla cui immagine l'uomo ha da esser reso conforme 1Giovanni 4:7-8;3:2. Se dunque i Corinzi vogliono seguir la gerarchia divina, cerchino i doni e fra questi i più utili; più ancora dei doni, coltivino le virtù permanenti della vita spirituale, e sopra ogni altra ricerchino la carità.
AMMAESTRAMENTI
1. Dio possiede infinita intelligenza e potenza, ma nella sua morale essenza è amore. Quindi nelle creature formate all'immagine sua, sopra ai doni di conoscenza, di parola, o di volontà, deve regnare sovrano l'amore. La religione che addita l'amore come l'eccellenza morale suprema da ricercare, non può esser che divina. «quando si getti uno sguardo sull'etica pagana, nei suoi migliori saggi, e si osservi quanto frammentaria e monca ella è, come essa glorifichi la vendetta qual dolce e nobil cosa, mentre considera il soffrir con pazienza i torti come una fiacca codardia, in qual luce divina appare la religione che esalta la carità come lo fa questo capitolo! in ogni altra religione o sistema morale manca il fondamento di un così alto carattere e resta ignota la vera sorgente della potenza che fa capaci di tradurlo in pratica nella vita... Chi legge con animo spregiudicato questo capitolo ne riporta l'irresistibile convinzione che chi lo scrisse possedeva il segreto di quell'amore, che unisce tutti i cuori ed avea ricevuto la missione di comunicare agli altri il segreto da lui sperimentato» (Schaff).
2. La grandezza morale e spirituale di un uomo non sta in quello ch'egli ha, ma in quello ch'egli, è. Quante cose si possono avere, senza essere nulla! Beni materiali, intelligenza, scienza, eloquenza, doni miracolosi, ecc., possono arricchire e rendere famoso un mortale che agli occhi di Dio è moralmente vacuo e nullo. Non c'inganni il giudizio incompetente degli uomini che possono lodarci per quel che abbiamo, mentre Dio guarda a quel che siamo. Se vogliam conoscerei, a questo dobbiam volgere l'attenzione.
3. Nel proclamar cosa moralmente vana le opere caritatevoli e perfino i più celebrati eroismi quando il movente di tali atti non sia la carità, Paolo pronunzia un «giudicio assoluto su tutte le opere di propria giustizia, su tutte quelle in cui l'uomo cerca sè stesso» (L. Bonnet). «L'amore ha, come l'Iddio da cui procede, il suo valore in sè stesso ed è quel che dà valore a tutto il resto... Esso è l'essenza più preziosa di tutte le virtù, l'operatore di tutte le opere cristiane. L'amore è quel che v'è d'eterno, di permanente nella vita spirituale» (Besser). L'amore sarà dunque la miglior pietra di paragone che potremo adoprare per giudicare del valore reale della nostra vita spirituale.
4. Nella carità Paolo vede il rimedio migliore alle gelosie, ai mormorii alle scissure, ai partiti che travagliano la chiesa di Corinto. Non è così in ogni famiglia, in ogni chiesa, anzi nella Chiesa universale dell'oggi? quando il sole divino della carità la riscalderà, spariranno dal suo seno le divisioni e le ire; la sua conoscenza, la sua scienza. I suoi doni di parola ed in genere di comunicazione del pensiero, la sua beneficenza e tutta la sua attività saranno santificate per la gloria del Cristo la cui vita fu la carità in atto.
5. Dalla permanenza della fede, della speranza e della carità, si può dedurre che il carattere umano, come perdura attraverso le circostanze più svariate della vita presente, così perdura attraverso la morte ed il giudicio, appunto perchè l'essenza della personalità non muore. «Porteremo, dice il Beet, al di là delle porte della morte quel carattere morale che la lotta della vita avrà sviluppato in noi». Tale il vecchio guerriero che depone bensì le armi, ma non l'impronta speciale del suo carattere.
6. Lo stato presente è stato d'imperfezione anche in coloro che sono più innanzi nella vita spirituale. Imperfetta è la nostra conoscenza per ogni verso, imperfetta la nostra santità, imperfetta la nostra fede e speranza, ed ahi! quanto imperfetta la nostra carità! ma conforta la prospettiva dello stato di perfezione quale ci è fatto intravedere alla fine di questo capitolo. Conosceremo come Dio ci ha conosciuti, vedremo a faccia a faccia, la nostra fiducia nel Padre non conoscerà eclissi, la nostra speranza sarà il sicuro riposo dell'anima nel Dio di perfezione; e sopra ogni cosa giungeremo ad amare perfettamente riflettendo nella nostra natura morale l'eccellenza superna del Dio ch'è amore. Ringraziato sia Iddio per «il dono ineffabile» in grazia del quale dall'inferno del peccato, possiamo essere innalzati fino al regno dell'amor suo! Ricordiamo intanto che si avvicinano maggiormente allo stato della celeste perfezione, coloro nei quali più viva e pura arde quaggiù la fiamma dell'amor cristiano.

Pra se pensar ....

Desespero anunciado

Desespero anunciado Para que essa agonia exorbitante? Parece que tudo vai se esvair O que se deve fazer? Viver recluso na pr...