Verità e libertà tra teologia e filosofia

Verità e libertà tra teologia e filosofia

 Verità e libertà tra teologia e filosofiaMassimo Cacciari La verità e la libertà sono quei termini per i quali si potrebbero ripetere
le parole di Agostino sul tempo: "Finché nessuno ci chiede cosa significhino, lo sappiamo, quando dobbiamo rispondere
o dimostrare il loro significato immediatamente ci sentiamo perduti". Cominciamo dal termine libertà. Come può la libertà
armonizzarsi con la verità, o - in termini diversi, ma per dire la stessa cosa - come può la verità liberare ? La verità,
metafisicamente, filosoficamente, è all'opposto un costringere. La grande tradizione metafisica europea e occidentale, a
partire dai greci, sta di fronte a questo ostacolo, a questo problema. La vita teoretica specula, contempla il pienamente
disvelato, la piena disvelatezza, aletheia, e a quella e di fronte a quella non ha alcuna scelta, deve dire di sì. Non ha
alcuna scelta. Questa tradizione va dai greci, attraverso grandi correnti, attraverso lo stoicismo, fino ai fondatori della
stessa filosofia moderna, fino a Spinoza. Intelligere Deum è in fondo sinonimo di intelligere necessitatem. Il saggio è
colui che sa il necessario, il pienamente disvelato. E lo segue volentieri. Ama questa necessità che ha conosciuto. La
filosofia dice questo, ma dice anche altro, dice che noi non possiamo dimostrare il nostro essere liberi, che il nostro
essere liberi è idea, è noumeno, qualcosa di pensato, ma che non potrà mai essere un fenomeno che noi riusciamo a
mostrare. Noi possiamo mostrare il nostro assentire al necessario, ad una legge, alla natura, naturale necessità. Ma non
possiamo dimostrare in nessun modo la nostra libertà. Quando diciamo che siamo liberi, se ci riflettiamo un po', noi
intendiamo che siamo liberi di fare qualcosa. E così crediamo di aver dimostrato la nostra libertà, ma filosoficamente
questa non è affatto una dimostrazione, perché, per poter dimostrare di essere effettivamente liberi, come ricordava
Schopenhauer, noi dovremmo dimostrare di poter volere ciò che vogliamo, non di poter fare ciò che vogliamo. Per
dimostrare di essere liberi non basta dimostrare che possiamo fare ciò che vogliamo. Vi può essere allora forse una
definizione di libertà ? Io credo che quella più radicale filosoficamente sia quella che è stata data da Spinoza, ma è
assolutamente inaccettabile filosoficamente, nel senso che è totalmente autocontraddittoria. Vi ricordate la definizione di
Spinoza? Ve la cito per essere precisi. "Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si
determina ad agire da sé sola. Ora va da sé che sulla base di questa radicale definizione di Spinoza nessun uomo
potrebbe mai dirsi libero. Perché nessun uomo esiste "per necessità della sola sua natura" e nessun uomo "si determina
ad agire da sé solo". Perché è pacifico, e davvero questo sì dimostrabile, che noi agiamo in un contesto di infinite
concause. Quindi la libertà dell'Etica di Spinoza poi è davvero assolutamente quella antica stoica. Cioè la libertà del saggio,
la libertà appunto di "intelligere Deum, sive necessitatem". Perciò noi filosoficamente - come vari autori hanno detto, magari
protestando, ne cito due soli, per tanti versi antitetici, ma che si incontrano in questo, Nietzsche e Chestov, un grande
lettore di Dostoevskij - ci troviamo di fronte a quella che potremmo dire una concezione totalitaria della verità. Vi è una
sorta, appunto diceva Nietzsche, di totalitarismo della verità. La verità obbliga, la verità costringe. Aletheia, piena
disvelatezza, che accechi o no pone la sua legge e soltanto il servo può ignorarla, soltanto l'insipiente può ignorarla e
credersi dunque libero rispetto alla sua necessità. Ma possiamo filosoficamente - perché vorrei questa sera restare
rigorosamente nell'ambito della discorsività filosofica - concepire, non direi un oltrepassamento - perché sarei ridicolo -
ma una interrogazione, una via che interroghi e interroghi radicalmente questo totalitarismo della verità senza accettare la
prospettiva che Bruno vi ha ricordato, totalmente paradossale, totalmente folle per la filosofia? Vi è anche, almeno,
un'interrogazione filosofica che può eccedere il totalitarismo della verità? Questo è un po' il tema di tutta la mia ricerca. E'
difficile dimostrare una verità come incondizionata apertura. Se riuscissimo a mostrare come - in tutto ciò che viene, in ogni
apparire, in ogni fenomeno, anche nel senso lontano - ciò che è decisivo non è il suo apparire, ma il suo essere in
costante divenire; se riusciamo a mostrare discorsivamente come in tutto ciò che diciamo non è in gioco soltanto una
adeguatio dell'intelletto alla cosa, ma è in gioco una dimensione che significa, indica - proprio secondo il moto eracliteo -
ciò che la cosa deve ancora essere, cioè l'ad-venire della cosa (in qualche modo quella dimensione che risuonava ancora
nel termine greco phisis, che è tradotto bene, e non male come dice Heidegger, dal latino "natura", perché è un
participio futuro: il nascimento, come traduce bene Colli, è traduzione bella dal latino "natura" , che non è l'insieme delle
cose date, ma è l'insieme delle forze costantemente generanti della natura): allora riusciremo a mostrare la verità come
incondizionata apertura. Se riusciamo a mostrare, nella visione del fenomeno, ciò che ancora deve venire. Nel tono della
parola ciò che ancora deve essere pronunciato. E badate che questo elemento "linguistico" si incontra perfettamente con
la semantica moderna: su ciò che è dato riuscire a comprendere, nell'esistenza di ciò che è dato riuscire a comprendere,
proprio nel suo ex-sistere, nell'aletheia, nella disvelatezza, nella illatenza del suo esistere, comprendere insieme, nello
stesso tempo, la latenza da cui proviene tutto ciò che esiste. Vi è un'attività in base alla quale si stabiliscono dei sensi e
questa attività, volenti o nolenti, resta nella costrizione del rapporto tra linguaggio e significato, tra parola e significato, tra
intelletto e cosa. Vi è un'altra attività, che è stata tra virgolette dimenticata in quell'accezione di verità a cui prima mi
richiamavo, ma che probabilmente accompagna ogni determinazione di significati, ogni determinazione di senso e che è
un dare senso e non un porre senso. E' un'attività che pone, che definisce ed è un'attività che dà, che dona significati e che
sta nell'ambito di quell'idea che sono ben lungi dal poter comprendere meglio, dal poter dire meglio di verità come
incondizionatezza dell'apertura. La parola, nel momento stesso in cui cerca di dire, indica, allude, anela, scopre, inventa.
E' il tema anche della grande Scolastica, che riguarda anche la teologia da questo punto di vista, perlomeno la teologia
cristiana, perché altro discorso sarebbe per la teologia propriamente detta di altre tradizioni (ebraica e islamica). Allora
prima di tutto il senso di quest'attività è dare senso, non definirlo semplicemente: nel momento stesso in cui lo definisci,
certo, altrimenti cadi in debolismi ermeneutici, in vaghi discorsi di erranze tutte letterarie. Comprendere che nello stesso
sforzo di definire vi è l'inventio, che nessuna definizione è senza inventio e d'altra parte nessuna inventio può esistere
come autentica inventio se non si sposa problematicamente alla definizione. Ebbene, io credo che vi sia in tutta la storia
della Chiesa, di questo grande paradosso, di questo grande mistero, vi sia costantemente la tentazione, o se volete
anche più della tentazione, proprio il peccato - perché trattasi di Chiesa militans, trattasi di Chiesa in itinere, non può
trattarsi di Chiesa trionfale, e non potrebbe essere diversamente perché è appunto la Chiesa in hoc saeculo e quindi, se
http://admin.pantarei.co.uk - Pantarei.co.uk Powered by Mambo Generated: 26 June, 2013, 04:23davvero esiste in hoc saeculo, deve compromettersi con il secolo stesso (compromettersi nel senso pieno del termine,
non nel senso di mezzucci politici) -, e cioè: declinare aletheia nel senso dell'illatenza, della disvelatezza cui occorre
obbedire, non nel senso dell'ascolto che diceva prima Bruno, ma nel senso di obbedire alla necessità. Questa è la
tentazione e, a volte, il peccato, e cioè: io sono martire, testimone di una cosa, di una presenza illatente, perfettamente
evidente, trionfalmente evidente, cui bisogna dire di sì, cui bisogna credere, cui è necessario credere. Allora veramente
secondo me si tradisce la quintessenza di quell'atto di fede che per me è nel Vangelo, dove la pistis è costantemente
contraddetta, controcantata, dove non vi è nessuno che ci dice "buono", dove non vi è nessuno che ci dice
semplicemente che crede, senza testimoniare nello stesso tempo la sua apistia, la sua estrema difficoltà a credere o
addirittura la sua mancanza di fede, nel momento stesso che dice la propria fede, in hoc saeculo, in quell'estremo
realismo anche linguistico che è proprio del messaggio evangelico. Ecco, io credo che la Chiesa corra costantemente il
rischio, e a mio avviso non potrebbe altrimenti, di presentarsi come ciò che pone senso, non come ciò che dona senso, che
dà senso, che apre a nuovi sensi. Ecco, questa è la mia domanda, la mia interrogazione fondamentale anche al modo in
cui a volte viene testimoniato il messaggio, e concludo dicendo in altri termini quanto dicevo nel mio primo intervento:
sarebbe a mio avviso umanamente essenziale in questo cavallo di secolo che la Chiesa con estrema chiarezza - ma mi
rendo conto che è impossibile che ciò avvenga, però se non si spera l'impossibile non si realizzerà nemmeno il possibile - si
presentasse così: sarebbe essenziale, sarebbe di straordinaria importanza per tutti, credenti, non credenti, laici, cattolici,
per tutte le altre religioni, sarebbe ecumenicamente di enorme rilievo che la Chiesa presentasse così la propria verità, in
termini esplicitamente contraddittori, non nel senso che la negano quell'altra definizione, ma in termini vitalmente
contraddittori, dialogici veri - non di quel dialogo da "abbracciamoci tutti" un po' stucchevole e dolciastro - contraddittori
rispetto all'aletheia come disvelatezza; sarebbe essenziale che la Chiesa testimoniasse che la sua aletheia non è quella,
è semmai follia rispetto a quella, è un'aletheia che mantiene la lethe al suo interno come la sua fede mantiene e
custodisce la stessa apistia al suo interno. E da questo punto di vista allora sì il dialogo con l'apistia diventerebbe
davvero decisivo, cioè non con un astrattamente separato da sé, ma con qualche cosa, con qualcuno che hai all'interno
di te stesso, non con un altro come estraneo, ma con l'altro che tu stesso sei a te stesso, proprio agostinianamente.
Questo aprirebbe prospettive culturali, proprio nel senso antropologico, a mio avviso straordinarie, e sarebbe il vero
contesto in cui potrebbe avvenire quella conversione ermeneutica di cui parlava Bruno, anche tra filosofia e teologia.
Non credo che la Chiesa abbia la possibilità di fare ciò, non credo abbia la possibilità di questo amore, perché questa
misura di amore è precisamente l'impossibile; questa misura di amore (che è una misura di libertà, diceva giustamente
Bruno) può essere vista, può essere compresa, ma è l'impossibile in hoc saeculo. 

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