Emanuele Severino
È il crepuscolo delle tradizioni
È il crepuscolo delle tradizioni
La tecnica sta ponendosi alla guida del mondo. Può riuscirvi solo se si è in grado di mostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il capitalismo, le religioni, la politica).
Ma chi può mostrarlo? Non certo la tecnica e la scienza. È invece l'essenza tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra cioè che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze della tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo. Di qui l'importanza di saper cogliere ciò che chiamo «essenza della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo contesto si riferiva anche il mio articolo (su «la Lettura» del 16 settembre scorso) intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. (E d'altra parte, come continuo a ripetere, quell'essenza è la forma più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l'esistenza dell'uomo - la Follia del nichilismo).
Ben presto l'uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo esista indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la base di ogni forma di «realismo». Se l'«uomo» è il singolo individuo umano, anche l'«idealismo» è una forma di realismo. D'altra parte, il mito e il pensiero filosofico della tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina», di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo, come pensa anche l'idealismo classico, culminante in Hegel - che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell'uomo, ma gli è unita. Come Cristo, l'uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non dall'uomo singolo, ma dall'Uomo-Dio. Nel pensiero del neo-hegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel modo più rigoroso.
Giacomo Marramao (ne «Il Secolo d'Italia» del 18 settembre scorso) è limpidamente d'accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l'altro, che uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile «pesante» e «ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente superiore a quello dei neo-hegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione «realistica» non immune da consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di neo-hegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile.
Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del realismo rispetto all'idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come «realismo» (assunto come ipotesi di lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua, il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere indipendentemente dalla scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il predominio del realismo rispetto a ogni altra forma filosofica.
Ringrazio anche Maurizio Ferraris per il suo intervento (su «la Repubblica» del 18 settembre scorso). Nel quale, però, si afferma che, nella prospettiva che va da Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi». No: questo lo si può dire di Kant (e propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto fenomeni. Per confutare l'idealismo, Ferraris richiama l'esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell'uomo, gli ostacoli incontrati dall'uomo, l'imprevedibilità degli eventi. L'idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono e muoiono. D'altra parte i miei scritti stanno al di là dell'opposizione realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente (sul «Corriere» del 27 settembre scorso) i loro temi centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per non complicare troppo il discorso.
Invece Gianni Vattimo (ancora sul «Corriere» del 21 settembre scorso) mi trova troppo affezionato «al vecchio argomento antiscettico» (se uno dice che non c'è verità sostiene che quel che lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un «giochetto logico-metafisico». Un giochetto che però (per richiamare solo due tra molti) Platone (nel Teeteto, 171 a) e Aristotele (nella Metafisica, IV, VIII) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che quell'argomento è «raffinatissimo» (kompsotaton). Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della realtà edito dalla Garzanti, p. 25) lo chiama invece «giusta accusa di autocontraddizione».
(Comunque nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d'accordo. Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall'argomento contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che quell'argomento ha un'importanza decisiva nel suo discorso?). Da parte mia ho scritto invece più volte che quell'argomento non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obietta che si contraddice egli può ancora replicare chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con Gentile, con l'«essenza del pensiero del nostro tempo», con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto» con loro. Dialogo anche con Vattimo...).
Per Markus Gabriel (anch'egli sul «Corriere» del 29 ottobre scorso) il contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista, scrive che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma «un essere indipendente dall'ambiente umano».
Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice dell'«essere» va detto invece degli enti: di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è eterno anche ogni «ambiente» e pertanto anche l'«ambiente umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l'ente e il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se «realismo» significa che certi enti potrebbero esistere anche se non esistesse l'uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi autocontraddittoria) - come l'idealismo. (Né l'uomo potrebbe esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente).
Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente contraddittoria» (e cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che certamente esiste - ed è un ente che, come ogni ente, esiste incontraddittoriamente - dal contenuto autocontraddittorio del contraddirsi, che invece è l'impossibile, il necessariamente inesistente.
Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e non sani, cioè sono enti contraddittori - ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti non esiste. L'esistenza del contraddirsi non rende dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione (che peraltro, in relazione al modo in cui è stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo).
(Corriere della sera 12/11/2012)
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