IDENTITÀ E VIOLENZA


Amartya K. Sen. Identità e violenza Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 219, 


 Torna l’economista-filosofo indiano Amartya Sen, uno dei pochi intellettuali contemporanei di livello veramente mondiale, e torna con un testo molto interessante su uno degli argomenti più dibattuti negli ultimi anni: l’identità. Di gruppo e individuale.
Lo spunto è dato anche in questo caso dalla teoria di Samuel P. Huntington sullo “scontro delle civiltà”. La tesi di Sen è che non esistano civiltà che si scontrano: e, del resto, lo stesso concetto di civiltà è alquanto arduo da definire. Incasellare storie differenti (sociali e individuali) miniaturizzandole in pochi contenitori è un esempio di quello che l’autore chiama “solitarismo”: un approccio che considera gli esseri umani come membri di un solo gruppo, anziché persone «diversamente differenti». Prenderne atto è fondamentale per la vita di ogni persona:«dobbiamo avere piena consapevolezza di possedere molte e distinte affiliazioni, e di poter agire con ognuna di esse in molti e diversi modi».
I rischi del solitarismo sono ben individuati già dal titolo: la violenza. Promuoverla è molto facile, quando ci si basa su «un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica – spesso belligerante – che noi possederemmo e che apparentemente pretende molto da noi (spesso cose del genere più sgradevole)». La storia dei conflitti religiosi (e non solo) è lì a dimostrarlo: molte carneficine hanno tratto impulso da un comportamento connivente del gregge, indotto a scoprire e identificarsi in un’identità che non può essere contraddetta e che non lascia possibilità di scelta, mortificando la libertà culturale di poter scegliere il proprio stile di vita. L’individuo che si lascia trascinare e che agisce meccanicamente in base alle sollecitazioni del conformismo di massa è uno «sciocco razionale», scrive Sen: può anche contribuire al successo del proprio gruppo, ma a quale prezzo? La creazione di identità uniche è in grado di rendere il mondo un luogo più infiammabile.
Non dobbiamo dimenticare che i creatori di identità sono sempre all’opera, spacciando per antichi e universalmente condivisi punti di vista minoritari e di parte. Lo stiamo vedendo anche da noi, in questo preciso istante, nell’infaticabile opera cattolica di promozione delle “radici cristiane”, italiane ed europee. Sen ribadisce che «la religione non è, né può essere, l’identità onnicomprensiva di un individuo». Ma non è un messaggio di facile presa, in un contesto in cui sia la destra che la sinistra (e non solo in Italia) sono attratte dalle sirene del multiculturalismo.
Da una parte, infatti, nazionalisti e leader religiosi tendono a ribadire la bontà della teoria di Huntington: quella che sostiene la nostra appartenenza alla civiltà occidentale e cristiana, premuta ai nostri confini dalla civiltà islamica e, più in là, da quella cinese: secondo questa logica chi dissente è, ovviamente, un traditore o, nella migliore delle ipotesi, un idiota che fa il gioco del nemico. Come già sottolineato anche da Zygmunt Bauman, dall’altra parte l’opposizione a questo ragionamento ne accetta comunque le basi: valorizzando il “buon islamico” e il “buon cinese”, si crea la percezione negli appartenenti (tra le varie appartenenze che hanno) a queste realtà che l’islam o la propria comunità etnica siano gli unici strumenti attraverso cui possono sviluppare la propria personalità: ammesso, ovviamente, che in tal modo la possano sviluppare.
Procedendo in questo modo, infatti, si giustifica la repressione piuttosto che l’incontro: cos’è più multiculturale, una coppia che vieta alla propria figlia di uscire con un ragazzo estraneo al proprio gruppo, oppure un incontro tra due persone di origine differente, che proprio dalla conoscenza reciproca potranno arricchire la propria individualità? Eppure è proprio la logica del ghetto quella che tante amministrazioni, specialmente di sinistra, promuovono con ben scarsa lungimiranza: ne abbiamo tanti esempi in casa, ma anche all’estero non si scherza, come l’improvvida apertura inglese alle scuole confessionali ampiamente dimostra. «Istruzione», scrive Sen, «non vuol dire solamente immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, nell’ethos dei padri. Vuol dire anche aiutare i bambini a sviluppare la capacità di ragionare sulle decisioni nuove che qualsiasi persona adulta sarà chiamata a prendere».
La bontà di una società plurale, ci dice Sen, andrà valutata dalla capacità di mettere in grado gli individui di compiere scelte ragionate, piuttosto che dal modo con cui tollera le persone di origine culturale differente. È il ricorso alla discussione ragionata ciò che può aprire prospettive pacifiche nel mondo contemporaneo, e non certo la contrattazione tra comunità conflittuali chiuse al proprio interno. Il pianeta sembra andare in un’altra direzione, ma è proprio “ragionandoci sopra” che si può sperare di invertirne la rotta.
Raffaele Carcano

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