Obbedienza e libertà
(Fazi Editore 2012)
LA TEOLOGIA DELLA LIBERTA'. PERCHÉ LA FEDE DEVE DIALOGARE CON IL PENSIERO ERETICO.
Il nuovo libro di Vito Mancuso sulla necessità del confronto all'interno della Chiesa, di Roberto Esposito
C'è qualcosa, nell'ultimo libro di Vito Mancuso edito da Fazi col titolo Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana-che va anche al di là delle sue tesi originali ed ardite. Si tratta di una forza emotiva, di un'energia viva, che coinvolge il lettore in una sfida cui risulta difficile sottrarsi. La posta in gioco è alta e decisiva per una tradizione, come la nostra, radicata nel dialogo critico con il cristianesimo. E ciò anche a prescindere dal punto di vista religioso, laico o perfino ateo, dell'interlocutore. Nessuna di queste posizioni assume senso, d'altra parte, fuori dal rapporto, affermativo o negativo, con la questione di Dio. Più precisamente, con la relazione tra Cristo e la verità. Ma, perché essa diventi davvero la nostra questione perché in essa ne vada della vita e della morte di ciascuno di noi, credenti o meno bisogna che venga formulata nella sua modalità più radicale, a rischio di spezzare il guscio protettivo in cui tutti noi, cristiani e laici, custodiamo le nostre certezze. È questo l'obiettivo che da tempo Mancuso ha assegnato alla propria ricerca teologica, congiungendo il più inteso impegno spirituale alla massima libertà teoretica, secondo l'esigente richiesta di Giacomo (2,12) «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà». L'elemento su cui va concentrata l'attenzione, in questa teologia della libertà, è proprio il nesso costitutivo tra parola ed azione. Un pensiero, non misurato alla prova dell'azione concreta, si ripiega su se stesso e si spegne. Ma anche un'azione che perda il rapporto con il pensiero è destinata a smarrire il proprio senso. E appunto quanto accade oggi alla Chiesa cattolica che, certo presente nella società dal punto di vista delle opere, appare sempre più incerta ed esitante su quello dei principi. Perché?si chiede Mancuso. Cosa, quale peso gravoso, sembra trattenere la Chiesa di Roma sempre al di qua di se stessa, chiudendola alla comprensione del mondo che la circonda e così sottraendola alla propria missione evangelica? La risposta, netta fino all'asprezza, dell'autore è che si tratta del timore di confrontarsi con quella parte di sé, del suo passato ma anche del suo presente, che la trascina in basso, portandola a preferire alla parola di Cristo quella dei suoi persecutori a rinnegarlo e a rinchiuderlo in una cella come fa il Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Del resto la figura sinistra che compare ne I Fratelli Karamazov non è un'invenzione fantastica dello scrittore russo, se quel concentrato di superstizione e di orrore, istituito da Paolo III con il nome famigerato di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, solo nel 1965, alla conclusione del Concilio vaticano II, è potuto diventare l'odierna Congregazione della Dottrina della Fede. Ebbene, se il Cristianesimo non trova il coraggio di tornare su questa vergognosa macchina del sangue, che ha mortificato, tormentato, stritolato, letteralmente mandandola in cenere, l'intelligenza o la vita di un numero impressionante di uomini straordinari, come Hus e Serveto, Bruno e Galileo, se non fa questo passo decisivo nel proprio passato delirio di cui il papato stesso si è fatto per secoli garante, non sarà capace di ritrovare quella forza necessaria a riformarsi nel profondo. Non è solo questione di riparare torti, ormai irreparabili, rispetto a coloro che furono dichiarati eretici, ma di porre l'eresia al centro stesso della fede come la linea di fuoco nei confronti della quale solamente il cristianesimo può ancora sperimentare la propria ispirazione e profondità. Solo se incorpora quella esigenza assoluta di verità «La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose», affermava Giordano Bruno -, scelta dagli eretici come propria ultima testimonianza, la fede potrà confrontarsi senza complessi con un mondo che sembra metterla ai margini anche per la sua mancanza di onestà intellettuale. Ma per conquistare questa estrema libertà interiore nella, e anche contro, la dottrina ufficiale, per abbattere quel generale dispositivo dell'obbedienza elevato da grandi e piccoli inquisitori, è necessaria una svolta senza compromessi nella stessa concezione della verità, di cui la Chiesa si ritiene depositaria al punto di aver voluto a lungo convertire ad essa, anche con la forza, coloro che la negavano. Da un lato essa va pensata non contro, ma attraverso la contraddizione che porta dentro, secondo la traduzione che una volta il cardinale Martini dette del motto Pro veritate adversa diligere «essere contenti della contraddizione»; dall'altro va rimessa a contatto diretto con la vita, dal momento che «il pensiero, quando è vero, è pensiero della vita, e in ciò e perciò è pensiero di Dio» (Karl Barth). Non è la verità che può verificare la vita, ma la vita che verifica, di volta in volta, la verità. La quale non va pensata come un insieme di dottrine statiche e bloccate su se stesse, ma come un farsi dinamico che risponde alle domande della contemporaneità. Qui Mancuso si impegna in un vero corpo a corpo con il più grande antagonista moderno del cristianesimo, vale a dire quel Nietzsche che appunto alla vita riconduceva la realtà del pensiero. Ma con la differenza decisiva che mentre egli individuava nella potenza il significato stesso della vita, Mancuso, in conformità con il messaggio di Cristo, lo pone nel bene. Nulla come un passo di Simone Weil, vera fonte di ispirazione dell'autore, ne illumina il senso, allorché ella scrive che su questa terra non c'è altra forza che la forza, ma che anche la forza suprema deve sottostare a un limite cui la tradizione ha dato il nome impersonale di giustizia.
Del resto la figura sinistra che compare ne I Fratelli Karamazov non è un'invenzione fantastica dello scrittore russo, se quel concentrato di superstizione e di orrore, istituito da Paolo III con il nome famigerato di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, solo nel 1965, alla conclusione del Concilio vaticano II, è potuto diventare l'odierna Congregazione della Dottrina della Fede. Ebbene, se il Cristianesimo non trova il coraggio di tornare su questa vergognosa macchina del sangue, che ha mortificato, tormentato, stritolato, letteralmente mandandola in cenere, l'intelligenza o la vita di un numero impressionante di uomini straordinari, come Hus e Serveto, Bruno e Galileo, se non fa questo passo decisivo nel proprio passato delirio di cui il papato stesso si è fatto per secoli garante, non sarà capace di ritrovare quella forza necessaria a riformarsi nel profondo. Non è solo questione di riparare torti, ormai irreparabili, rispetto a coloro che furono dichiarati eretici, ma di porre l'eresia al centro stesso della fede come la linea di fuoco nei confronti della quale solamente il cristianesimo può ancora sperimentare la propria ispirazione e profondità. Solo se incorpora quella esigenza assoluta di verità «La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose», affermava Giordano Bruno -, scelta dagli eretici come propria ultima testimonianza, la fede potrà confrontarsi senza complessi con un mondo che sembra metterla ai margini anche per la sua mancanza di onestà intellettuale. Ma per conquistare questa estrema libertà interiore nella, e anche contro, la dottrina ufficiale, per abbattere quel generale dispositivo dell'obbedienza elevato da grandi e piccoli inquisitori, è necessaria una svolta senza compromessi nella stessa concezione della verità, di cui la Chiesa si ritiene depositaria al punto di aver voluto a lungo convertire ad essa, anche con la forza, coloro che la negavano. Da un lato essa va pensata non contro, ma attraverso la contraddizione che porta dentro, secondo la traduzione che una volta il cardinale Martini dette del motto Pro veritate adversa diligere «essere contenti della contraddizione»; dall'altro va rimessa a contatto diretto con la vita, dal momento che «il pensiero, quando è vero, è pensiero della vita, e in ciò e perciò è pensiero di Dio» (Karl Barth). Non è la verità che può verificare la vita, ma la vita che verifica, di volta in volta, la verità. La quale non va pensata come un insieme di dottrine statiche e bloccate su se stesse, ma come un farsi dinamico che risponde alle domande della contemporaneità. Qui Mancuso si impegna in un vero corpo a corpo con il più grande antagonista moderno del cristianesimo, vale a dire quel Nietzsche che appunto alla vita riconduceva la realtà del pensiero. Ma con la differenza decisiva che mentre egli individuava nella potenza il significato stesso della vita, Mancuso, in conformità con il messaggio di Cristo, lo pone nel bene. Nulla come un passo di Simone Weil, vera fonte di ispirazione dell'autore, ne illumina il senso, allorché ella scrive che su questa terra non c'è altra forza che la forza, ma che anche la forza suprema deve sottostare a un limite cui la tradizione ha dato il nome impersonale di giustizia.
Sul carattere "impersonale" della giustizia può farsi una riflessione, che segnala, se non un punto cieco, un passaggio mancato, o almeno incompleto, del discorso di Mancuso. Si tratta del lessico personalista che egli peraltro in buona compagnia (si veda in proposito il libro di Roberta De Monticelli La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti) adopera nella sua intera opera, senza accorgersi che è stato proprio attraverso di esso che, dai primi secoli cristiani, è stata elaborata quella teologia politica che pure contesta. Del resto nella sua originale ricerca filosofica sul significato dell'anima, richiamando l'intelletto attivo di cui parla Aristotele, Mancuso perviene a sfiorare la più eretica teoria di Averroé-altra vittima dell'intransigenza religiosa, in quel caso islamica di un'intelligenza separata e impersonale. Solo in questo modo il bene può essere inteso come pura relazione che riguarda tutti, anziché come prerogativa di un singolo individuo. Nel punto forse più ispirato del suo libro, Mancuso scrive che la formulazione «In principio era il logos» può essere intesa non solo come «In principio era l'azione» (Goethe), ma anche come «In principio era la relazione» l'essere in comune non ancora diviso, e discriminato, tra i vari soggetti personali. Del resto questa era anche la tesi di quel Sigieri di Brabante, citato dall'autore perché trucidato per le sue posizioni averroiste e posto invece nel Paradiso da Dante. D'altra parte perché fu condannato Bruno, se non per aver negato il concetto di persona, sia nell'uomo che in Dio, a favore del principio impersonale della vita infinita? Non c'è modo migliore di congedarsi da un libro, alto e forte, come quello di Mancuso che citando la sua autrice preferita: «Ciò che è sacro, ben lungi dall'essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale (…) Ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell'impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio nell'impersonale» (Simone Weil, La persona e il sacro).
la Repubblica, 30 marzo 2012
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