l turpiloquio politico ha ormai da tempo ampia cittadinanza nella società della comunicazione: l'incontinenza verbale, accompagnata da pernacchie (mal riuscite, peraltro), diti medi in mostra e gesti dell'ombrello, viene proposta come segno di discontinuità rispetto alla retorica bizantina, sfumata, astratta da Prima Repubblica. Si è poi capito (in ritardo) che nella sostanza c'era ben poco di diverso rispetto al passato, e che l'unica variante era appunto quell'espressività pecoreccia e cioè quella notevole dose aggiunta di volgarità populistica: a proposito di queste derive linguistiche, Federico Faloppa parla efficacemente di «rumore bassoventrista» in un articolo uscito nell 'Indice , che analizza in chiave di contrappunto la prosa di Nichi Vendola.
Difficile dire se i politici abbiano interpretato una tendenza che era nell'aria o al contrario se abbiano finito per autorizzare analoghi risultati a tutti i livelli. Parlando di testi letterari, Maria Corti (che verrà ricordata giovedì a Pavia, nei dieci anni dalla morte, come grande filologa, storica della lingua e maestra) accennava spesso alla nozione di isotopia, designando con quel termine tecnico una sorta di coerenza tra i vari piani testuali. Ma un'isotopia più ampia, diciamo culturale, ha visto negli ultimi anni uno «spostamento coassiale» verso il basso. Mentre il linguaggio dei leader scivolava a vista d'occhio (e d'orecchio), la tv, non solo nei reality show, metteva in campo una quotidianità triviale e pseudo-oscena: l'ultimo Sanremo ne è stato un esempio, ma l'esito più vistoso è l'apoteosi scatologica dei Soliti idioti che manda in visibilio il pubblico.
Ovvio che la letteratura non si tira indietro nel valorizzare l'oralità spontanea, con massiccio inglobamento di turpiloquio e scurrilità a fini icastici e di mimesi del reale: non si contano i czz, i cgln, i cl, le mrd, i pzz di mrd, le fgh eccetera nei romanzi. Come se la parolaccia rappresentasse ancora un'oltranza capace di inarcare il livello della prosa e non si trattasse invece di puro adeguamento al conformismo vigente: semmai oggi a épater les bourgeois sarebbe una prosa raffinata e lontana dal parlato. «Il turpiloquio è un elemento che sembra ormai inevitabile nella narrativa italiana contemporanea», scrive la linguista Tina Matarrese in un saggio edito dall'Accademia della Crusca. Il fatto è che un Marcolfo o un Burchiello del Duemila non avrebbero alcun effetto trasgressivo e anzi sarebbero nella norma. Da antimodello scandaloso e carnevalesco, il parlar sboccato è diventato canone ufficiale. Non si era ancora vista, però, la parolaccia esibita a scopo di marketing, come accade nella quarta di copertina del romanzo A volte ritorno dello scrittore irlandese John Niven, appena uscito da Einaudi Stile Libero. Un romanzo «dissacrante e provocatorio» che espone le sue credenziali sin dal brano di lancio, dove dilagano mrd e czz in bocca a un Dio infuriato. Chi glielo dice a Bukowski che nel frattempo è diventato un chierichetto?
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