Non c'è da perdere tempo


Non c'è da perdere tempo
di Donatella Bassanesi

Louise Bourgeois


Si può rispettare il tempo (prefissato), cioè attenersi al tempo. Si può andare a tempo, o essere fuori tempo. Si sottintende che il tempo è qualcosa che può essere seguito o no. Essere esterno o interno. Prendere tempo è allungare il tempo. E' soffermarsi per estenuare la controparte. Oppure per pensare prima di prendere una decisione, permette di riflettere e valutare i particolari, la decisione che dovrà uscirne viene rimandata perché è posta al vaglio del giudizio.
Ma c'è un significato di tempo che coincide con l'attimo. L'attimo si può cogliere. In questo senso prendere il tempo significa afferrarlo. È il caso colto. Va riferito allo scatto (si potrebbe rappresentare come scatto fotografico). Questo scatto, inteso radicalmente, è annientante. È il colpo mortale per il quale viene annullato il tempo dell'altro, annullato l'altro come soggetto, reso più che oggetto (letteralmente sub-iecto, gettato sotto, sottoposto), come chi non ha più il proprio tempo, ha perso il tempo. Tempo che si può perdere anche transitoriamente lasciando che scorra. Allora è come un lasciarsi andare, farsi scorrere, lasciare che le cose avvengano senza intervenire.
Infine. Il tempo si può compiere? Qualcuno pensa ad un certo momento che il proprio tempo si è compiuto? La propria vita è risolta?
Oppure c'è unicamente un passare? Il tempo passa e caratterizza il passante che dal tempo, comunque, è attraversato.
C'è un carattere di soggetto dei passanti. Individui che si qualificano perché stanno passando, ossia hanno ancora del tempo, e, insieme, si avviano a non-avere-più tempo: è il segno di appartenenza del soggetto (in quanto vivente-agente) al tempo, e del tempo al soggetto.
Ma il passante può perdere tempo (lasciare scorrere il tempo), o al contrario affrettarsi perché ha poco tempo.
Sono le azioni a qualificare gli individui (e ogni singolo originandole ne partecipa, ne è sempre e comunque responsabile), sono le azioni a provenire da un giudizio da cui deriva decisione e azione (il passante che ha davanti a sé molto o poco tempo potrebbe in un certo senso collegarsi al suo sguardo sul mondo, al giudizio che trae dalle osservazioni fatte). Così il tempo-azione che rende differenti gli individui, dà loro anche la possibilità di tracciare segni.
Per questo tempo-azione, anche quando si è raggiunto un grado molto alto di omologazione, anche quando scelte differenti sembrano impossibili perché tutto l'ambiente circostante ha già deciso preventivamente sul problema, esiste una possibilità, quella di "riesaminare le cose" e di "formarsi una propria opinione" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura (conferenza 1964), in "Micromega" n. 4, 1991, p. 204).
Si tratta di esercitare comunque un giudizio proprio. Che è "l'abitudine a convivere senza infingimenti con se stessi, a trovarsi in quel silenzioso colloquio (…) che da Socrate a Platone in poi siamo soliti chiamare 'pensiero'" (che è la base di ogni filosofare). È avere una coscienza che non funziona in modo automatico. Non essere tra quelli che dispongono "di una serie di regole apprese o innate che applichiamo quando occorre, cosicché ogni nuova esperienza o situazione è già giudicata a priori e non dobbiamo fare altro che seguire quanto già sapevamo in anticipo o abbiamo appreso", anche quando si avverte "una diffusa paura di giudicare" nella quale si avverte "il sospetto che in realtà nessuno agisce liberamente, e perciò si dubita che qualcuno possa mai essere veramente responsabile e rispondere dei suoi atti" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 204, 188).
La possibilità, collocandosi nell'area del giudizio (e della decisione), implica azione, e sta nel luogo di passaggio tra pensiero e atto, tra l'uno e l'altro e non corrisponde esattamente né all'uno né all'altro.
Conseguentemente, qualsiasi gesto si allontana subito dall'agente e si sposta sul destinatario che re-agendo lo modifica, e modificato lo allontana da sé con una successiva azione, una catena dove nulla rimane uguale ma che per essere catena conduce lontano. Nel percorso dei segni non si sa che cosa si venga formando, probabilmente rimane qualcosa che potrà riflettersi in un altro tempo che quel riflesso potrà riportare alla luce (rendendogli in un certo senso nascita). Perciò, essendo la possibilità (e inevitabilità) di incidere connessa al passaggio dall'uno all'altro, e la parte invisibile, che agisce sotterraneamente, nascosta che sopravvive al tempo (al presente).
Oggi assistiamo a guerre come spettatori, come mai prima inascoltati, ininfluenti (lo scandalo non supera la parola e viene assorbito facilmente dal successivo, che non accresce l'orrore lo riduce). Ma "ci vuole una certa qualità morale per ammettere che non si ha alcun potere", e d'altra parte "dipende proprio da questa ammissione della propria impotenza la possibilità di conservare un residuo di saldezza morale, e anche di potere, persino in (…) condizioni disperate" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 204-205).
Abbiamo 'visto' soldati italiani 'inviati in un'azione di pace', legittimati dalla macchina di cui sono parte, ammazzare da lontano, senza odio, (quasi 'in libera uscita', con 'licenza di uccidere') puntando bersagli (come pupazzi), come se si trattasse di un videogioco.
Parti e ingranaggi di una guerra che si vuole generale e di conquista (la teoria dell'impero), fondata su tecnologie sofisticate, in cui la caratteristica principale della precisione coincide con la precisione da lontano (il tiro al bersaglio), si attivano a distanza, ossia in quell'area, in quella certa particolare 'invisibilità' che 'legittima' la mossa 'automatica' che 'punta' all'annientamento del bersaglio, senza porsi tante domande circa la natura del bersaglio. L'apertura alla mossa automatica è data da una parola-chiave continuamente evocata, ma scarsamente credibile (visto l'evidenza che le guerre alimentano queste chiamate forme di terrorismo, la guerra dei poveri che non si adattano ad essere terra di conquista dell' 'impero').
Il rapporto tra soggetti, non solo estremo perché implica vita-morte, viene interrotto. Perché si configura come uno squilibrio di forze senza precedenti. Per la sperimentata inutilità delle parole. Per aver perso le parole un senso comune, il senso comune (il common sense) si rivela ininfluente. Ossia scompare ciò che "ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti noi", per il quale "i nostri cinque sensi, strettamente privati e 'soggettivi' e i dati da essi forniti, possono adattarsi a un mondo non soggettivo, ma 'oggettivo', che abbiamo in comune e dividiamo con altri" (H. Arendt, Between Past and Future, New York, 1961, tr. it. Tra passato e futuro, Firenze, 1970, p. 284). Mondo che è 'pubblico' "in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente", per cui "vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra (…), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo" (H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago, U.S.A., 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, p. 39).
Noi, in presenza di una società totale, omogenea, in un clima politico-sociale di scarso prestigio del sistema partitico che "premendo gli uomini uno contro l'altro (…) distrugge lo spazio fra di essi". (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 638).
È il peso di un potere totalitario, che si fonda sul rendere i soggetti rotelle di un ingranaggio, si mostra come una forma di potere che fa crollare le norme morali correnti, e dalle forme estremamente inumane e crudeli, a non poter essere ignorato.
Un modello di repressione totale si mimetizza con misure di carattere militare che producono assuefazione, si espandono, dilagano, sfidano il pensiero e il giudizio (l'azione).
Ma "il male non è mai 'radicale'" è "soltanto estremo", "non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso 'sfida' il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale" (H. Arendt).
Così mettersi dalla parte di un ordine che (colpendo prima di tutto i civili punta ad annientare la possibilità stessa di trasmissione da uno all'altro, in generale la comunicazione tra differenti), è una responsabilità non può essere "trasferita dagli uomini al sistema" creando la confusione (morale) di sentirsi innocenti avendo commesso dei crimini evitando la scomodità "di porsi delle questioni morali". (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 190, 193, 196). Perché "esiste la possibilità di 'non partecipazione', che sarà decisiva quando cominceremo a giudicare non il sistema, ma l'individuo, le sue scelte e le sue ragioni" (H. Arendt), a mostrare la disobbedienza civile non solo come forma di sottrazione, ma come segno di resistenza, forma di opposizione, un diritto politico che proviene da qualcosa che cresce spontaneamente, è un sentire insieme che si forma perché ciascuno ha messo in comune con altri il proprio sentire, perché è cresciuto un common sense, un 'senso in comune' - qualcosa che riguarda i sensi (i cinque sensi) e l'essere con altri, nel quale si trova un fattore soggettivo, imprevedibile, per il quale possiamo dire che "abbiamo palesemente cominciato a portare la nostra imprevedibilità in quel regno che avevamo sempre creduto sottoposto a leggi inesorabili" (H. Arendt, Between Past and Future, New York, 1961, tr. it. Tra passato e futuro, Firenze, 1970, pp. 95, 68).
Disobbedienza civile, che si ribella, non ubbidisce più perché nega il 'tacito assenso", è rifiutare l'appoggio, ed è "una delle tante varianti dell'azione non violenta", "una forma di resistenza del nostro secolo" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. p. 206). E per la sua natura di opinione che si forma nel confronto collettivo, proviene dal giudicare (che prelude alla decisione ed è primario nel politico), ed "è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro 'condividere il mondo con altri'" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. p. 284). Vuole cambiare il mondo, ma senza l'uso della violenza. È sfida collettiva alla società di massa. È la risposta forse più adeguata alla società di massa e ai suoi caratteri avvolgenti.
È nata "quando un numero consistente di cittadini ha raggiunto la convinzione che i normali canali del cambiamento non funzionano più e che le lamentele non saranno ascoltate né prese in considerazione, o che, all'opposto, il governo sia sul punto di cambiare e si sia imbarcato e insista in determinate iniziative la cui legalità e costituzionalità prestano il fianco a seri dubbi". "In altre parole, la disobbedienza civile si può sintonizzare sulla richiesta di un cambiamento necessario e auspicabile o sulla necessaria e auspicabile conservazione o ripristino dello status quo". E tuttavia chi pratica la disobbedienza civile è una minoranza, in genere in disaccordo con la maggioranza, e che tuttavia "agisce in nome e per il bene di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite sulla base di un dissenso di fondo, e non perché in quanto singolo desideri fare un'eccezione per se stesso e basta". (H. Arendt, Crises of the Republic - Lying in Politics, Civil Disobedience, On Violence, Thoughts on Politics and Revolution, 1969, tr. It. Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985, pp. 142, 140, 141).
Così in val di Susa abbiamo visti sindaci e tutta la popolazione presidiando la valle giorno e notte hanno esercitato la disobbedienza civile. Protestando hanno esercitato un diritto politico. Anzi, meglio, hanno esercitato il diritto alla politica, che è potere condiviso.
Si è interrotto il processo ripetitivo e cieco di sottomissione. L'interruzione è passata attraverso l'agire. Un'azione di massa che potremmo dire è il fenomeno rivoluzionario (H. Arendt, On Revolution, New York, 1965, tr it. Sulla Rivoluzione, Milano, 1983). Ossia quel modo, che appartiene alle società civili, di non obbedire a degli ordini quando non si hanno altri strumenti, in mancanza di regole che garantiscano la partecipazione politica alle decisioni. Sta dunque come garanzia di potere incidere in qualche modo nelle scelte, ed è un percorso verso la coincidenza del potere politico con la libertà (la relazione tra pari).

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