IL RISCHIO DI SPERARE

Il rischio di sperare
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Scritto da Daniela Turato   
Nel pomeriggio ci rechiamo a Panzano, nella valle del Chianti, a metà strada tra Firenze e Siena. Si percorre una stradina sterrata tra gli ulivi e si arriva al bellissimo eremo di San Pietro alle Stinche.
Qui, dal 1967, ha vissuto P.Giovanni Vannucci (1913-1984), servo di Maria, un ricercatore infaticabile di Dio che ha lottato per la riforma del suo ordine e per il recupero di una radicalità evangelica nella Chiesa. Uomo capace sempre di una lucida analisi dei problemi ecclesiali ed ecumenici, di rigore morale e con un'avversione innata per ogni forma di compromesso che lo porta per un po' di tempo in esilio dalla Diocesi di Firenze. Quando vi può rientrare, la scelta di ritirarsi ad una vita più semplice possibile è, per P.Giovanni, il tentativo di un ritorno alle origini.
 
«Il significato del monachesimo - scrive - è quello di ritrovare, mediante una radicale trasformazione personale, il fuoco ardente delle origini, di riporre in discussione tutti gli addomesticamenti ai quali il logorio del tempo e la pigrizia umana hanno sottoposto la parola evangelica. Il monaco è la persona che cerca la verità non legata, incondizionata, il silenzio che è al di là di tanti rumori e slogans e da cui zampilla la Parola creatrice. (...) Penso che il monachesimo debba muoversi sulla linea creatrice, riproponendo continuamente all'umanità quei modi di vita che la rendono più nobile e più grande, più degna della sua dignità e vocazione».
 
P.Giovanni detesta la banalità, la mediocrità, la superficialità, ma a chi cerca seriamente lascia la più grande libertà nella consapevolezza che “per arrivare a Dio ci sono tante vie quanti sono gli uomini”.
Anche la forma di vita comunitaria deve essere, per lui, un inno allo Spirito. Cerca perciò di creare
 
«una comunità dove a ciascuno sia concesso di portare a maturazione i propri doni e servire l'uomo con essi. Una vita comunitaria autentica può svilupparsi solo tra uomini liberi».
 
Uno dei modi attraverso cui, fin da subito, la comunità delle Stinche serve l'uomo, è attraverso l'accoglienza dei poveri. L'eremo non è una fuga dal mondo, ma un'assunzione piena di esso, per restituirlo trasfigurato.
All'eremo incontriamo P.Eliseo e P.Lorenzo Bonomi. E' quest'ultimo, compagno della prima ora di P.Giovanni, che ci parla di lui e del senso della loro scelta di vita: «La massificazione del nostro tempo - ci racconta - era uno dei grandi pericoli da cui fra' Giovanni metteva sempre in guardia. Vedeva nell'eremo non un luogo di isolamento, ma di rinascita, di rigenerazione».
Gli chiediamo: «Dopo 40 anni di vita vissuti all'eremo, se un giovane venisse qui e ti chiedesse: “Chi è il monaco?” cosa risponderesti?». P.Lorenzo abbassa gli occhi e, per qualche attimo, si raccoglie in silenzio. Poi con voce timida ma ferma, risponde: «Il monaco è una persona che si è messa alla ricerca dell'essenziale e che con grande distacco da sé, dall'ambizione di affermare sé stesso continua una via di preghiera per lavorare soprattutto su sé stesso, per trasformarsi, per togliere durezze, asperità, chiusure, ignoranze, paure che uno porta dentro di sé. Su questo aspetto insisteva soprattutto fra' Giovanni: il monaco è colui che cerca di diventare nuova creatura, dando il meglio di sé stesso e rimanendo aperto all'influsso della grazia. Ciò non è il risultato di una volontà propria, di un volontarismo, ma è l'incontro di due amori che si attirano. Il monaco è anche solo una persona che è disponibile ad ascoltare, ad incontrare, ad accogliere un dolore, una confidenza. Questo già giustificherebbe la nostra presenza».
 

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