Il breve scritto Il discorso sulla servitù volontaria (circa trenta pagine) fu composto da La Boétie, secondo Montagne, a soli 16 anni (in un edizione precedente dei suoi Essais, Montaigne indica 18), ma più probabilmente nel 1552-53.
Fu fatto circolare ampiamente da La Boétie, tanto che lo stesso Montaigne afferma di averlo letto prima di conoscerne personalmente l’autore.
Il Discorso sarà pubblicato, anziché da Montaigne, nella raccolta di scritti antimonarchici Memorie degli Stati di Francia sotto Carlo IX, con il titolo Contr’uno con cui divenne noto.
Questa pubblicazione non è del tutto fedele, ma contiene alcune interpolazioni e inserimenti, dei quali la prova maggiore è fornita dalla citazione della Franciade di Ronsard pubblicata nove anni dopo la morte di La Boétie. Secondo alcuni storici, questi inserimenti sarebbero opera dello stesso Montaigne; tanto che lo storico francese Armingaud, ai primi del ‘900, arriva a sostenere che il testo sia interamente opera di Montaigne. Ipotesi non condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi; la paternità dell’opera rimane così attribuita a La Boétie.
Il testo costituì un punto di riferimento inizialmente per l’opposizione calvinista alla monarchia cattolica, successivamente per la opposizione contro l’Ancien Régime che scaturì nella Rivoluzione Francese, in seguito per la protesta repubblicana contro la Restaurazione attuata al congresso di Vienna, ed infine per la politica socialista e rivoluzionaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed in particolare per la sua corrente libertaria.
La carica libertaria del Discorso è stata dunque utilizzata per la critica di regimi tra loro molto diversi, dalla monarchia feudale fino allo stato borghese liberale, testimoniando così di conservare la sua validità in ogni tempo, compreso l’attuale, rivolgendosi contro la tirannia in sé, indipendentemente dalle forme storiche che essa assume.
Il Discorso si fonda su due pilastri. Il primo, che dà il titolo all’opera, è costituito dall’idea che la tirannia non sia imposta, ma consensualmente accettata dal popolo, il quale si trova quindi in una situazione di servitù volontaria, ossia accetta volontariamente di sottomettersi al tiranno. La Boétie critica dunque la concezione classica della filosofia politica, ancora oggi molto diffusa, che considera le catene della servitù unidirezionali, e dunque il problema posto da questa semplicisticamente risolvibile attraverso la rottura delle catene stesse; ottenuta la quale, gli individui sarebbero automaticamente liberi, come se solo la volontà malefica del sovrano fosse causa della loro sorte, alla quale essi non contribuiscono in alcun modo.
La Boétie, al contrario, afferma che, accanto al naturale e innato desiderio di libertà, vi sia negli uomini anche un oscuro desiderio di servire:
«è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo […] Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?».
Il carattere volontario della servitù è dimostrato dal fatto che basterebbe desiderare essere liberi per diventarlo:
«questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne sarebbero liberi. È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. […] se per avere la libertà basta desiderarla, se c’è solo bisogno di un semplice atto di volontà, quale popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola ottenere solo con un desiderio […] ?».
Il popolo è dunque complice del proprio asservimento:
«Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?».
Come è possibile, quindi, si chiede La Boétie, che gli uomini accettino di sottomettersi al tiranno?
Innanzi tutto questa domanda porta La Boétie ad allargare il concetto di tirannia. Tiranno non è semplicemente l’Uno della monarchia assoluta, ma qualsiasi corpo politico che elimini il carattere pubblico del potere per utilizzarlo in modo da imporre agli altri la propria volontà ed i propri interessi; indipendentemente dal modo in cui questo potere è ottenuto, fosse anche attraverso il suffragio popolare.
«Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista. Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile».
Tornando alla domanda di cui sopra, La Boétie elenca i mezzi attraverso i quali i sovrani suscitano la volontà di servire, per ottenere il consenso necessario ad ogni regime, ancorché tirannico.
Il primo di questi mezzi è l’abitudine:
«certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati […] È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù. È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita. Non si può dire che la natura non abbia un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso o nell’altro; ma bisogna altresì confessare che ha su di noi meno potere della consuetudine: infatti l’indole naturale, per quanto sia buona, si perde se non è curata; e l’educazione ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia, malgrado l’indole. I semi del bene che la natura mette in noi sono così piccoli e fragili da non poter sopportare il minimo impatto di un’educazione contraria; si conservano con più difficoltà di quanto si rovinino, si disfino e si riducano a niente». Benché dunque l’indole umana sia libera, l’abitudine ha sugli individui effetti maggiori che non la loro indole, e così essi accettano la servitù se sono sempre stati educati come schiavi: «La natura dell’uomo è proprio di essere libero e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione».
Il secondo mezzo, essendo il primo alla lunga insufficiente, consiste nell’abbrutimento del popolo. La servitù di per sé porta a un infiacchimento dell’individuo, ed i tiranni, accorgendosene, operano per incrementare tale effetto. Innanzi tutto ostacolando la diffusione della cultura, giacché i libri e l’istruzione contribuiscono più di ogni altra cosa, secondo La Boétie, a diffondere la consapevolezza di sé e l’odio per la servitù. Ma soprattutto questo risultato è ottenuto attraverso una strategia da tempo nota come panem et circences:
«i teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche, gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere».
Quanto al panem:
«I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni non si accorgevano che non facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se prima non l’avesse presa a loro stessi».
Un altro strumento è rappresentato dall’atomismo sociale: il potere tirannico fa di tutto per impedire qualunque forma di aggregazione e comunicazione sociale tra coloro che hanno conservato la passione per la libertà. Le uniche associazioni consentite sono quelle che non contestano la tirannia, o che la sostengono.
Gli ultimi due strumenti indicati da La Boétie sono i più importanti. In primo luogo, egli considera tutti i meccanismi volti a creare il massimo consenso possibile intorno allapersona del tiranno.
Tra questi meccanismi, La Boétie considera la pratica di presentarsi al pubblico «il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il dubbio che fossero in qualche cosa più che uomini». In secondo luogo la «favola» dell’origine divina del re, dalla quale deriva la credenza nelle sue capacità taumaturgiche.
Nella misura in cui questa credenza viene meno, diviene importante l’altro meccanismo considerato da La Boétie: quello di presentarsi, da parte del tiranno come rappresentante del popolo e fautore dell’interesse generale:
«gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune».
Il tiranno arriva così a rappresentare l’unità del popolo, e questo si lascia affascinare dal «nome di Uno», appunto perché simboleggia il popolo stesso riunificato sotto il fantasma della propria unità e finalmente liberato dalla propria pluralità.
Infine La Boétie considera lo strumento che egli stesso definisce il fondamento della tirannia. Si tratta della sua stratificazione gerarchica:
«non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […].Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita».
La Boétie è dunque ben lungi dall’attribuire il desiderio di servire ad un presunto carattere irrazionale delle folle, od alla stupidità popolare. Al contrario, il fondamento della tirannia è assolutamente razionale, essendo dato da un meccanismo che diffonde gerarchicamente il potere e, per suo tramite, la ricchezza, dando ad un certo numero di individui buone ragioni per obbedire.
Il secondo pilastro su cui si regge il Discorso è dato dalla contrapposizione tra la servitù e lo stato di libertà. Quest’ultimo non solo è storicamente anteriore al primo, che sarebbe frutto di un Malencontre, ma è anche naturale:
«credo che sia fuori dubbio che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. […] di sicuro, se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento, e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno agli altri, abbia voluto lasciar spazio all’affetto, perché avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. […] non bisogna dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni, e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme. […] Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla».
Nel difendere questa concezione naturale della libertà, La Boétie delinea una società fondata sulla libertà e sull’uguaglianza, contrapposta alla dominazione, e realizzata attraverso una relazione sociale antiteca a questa: l’amicizia. I disonesti non sono amici ma complici, non si amano ma si temono. Al contrario, l’amicizia «ha il suo vero terreno di coltura nell’eguaglianza, che non vuole mai contravvenire alla regola, anzi è sempre uguale». Al di là della concezione naturalistica della libertà, La Boétie basa il suo ideale di società su di una relazione istituita di amicizia che consenta il massimo sviluppo possibile di libertà ed uguaglianza.
In conclusione, il Discorso, benché scritto 450 anni fa, conserva ancora oggi un carattere fortemente attuale. Oltre che per i suoi aspetti teorici, la forza di quest’opera consiste nell’affermare contro ogni tirannia il diritto alla disobbedienza civile: «siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».
Facendo attenzione che ciò non sia per alcuni il pretesto per instaurare una nuova tirannia, diversa nella forma ma identica nella sostanza, di modo che “tutto cambi affinché nulla cambi”. A costoro è giusto che non arrida il successo in quanto «non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie ».
Questo è il messaggio che La Boétie ci manda dal suo testo, in nome della libertà, contro ogni tirannia.
Um comentário:
UN DISCORSO ANCORA VALIDO E MOLTO ATTUALE DA LEGGERE E RIFLETTERE!
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