Pluralismo, multiculturalismo e estranei (2000) Integrazione vuol dire anche riconoscimento delle radici dell'Europa


Giovanni Sartori


(Redazione Virtuale)

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Con Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Giovanni Sartori affronta il fenomeno dell’immigrazione, tanto più problematico quanto più consistenti sono le dimensioni dei flussi migratori e ampia è la distanza culturale dei nuovi venuti. La loro integrazione richiede tolleranza reciproca, ma soprattutto l'accettazione da parte loro del principio cardine su cui verte la convivenza europea: la separazione tra il potere dello Stato e quello della Chiesa. Procastinare questo chiarimento significa andare, col tempo, verso la balcanizzazione del Paese.

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arliamo di un libricino dal titolo impegnativo: Pluralismo, multiculturalismo e estranei (Rcs, 2000), scritto da Giovanni Sartori, personaggio noto in Italia per i suoi interventi sul «Corsera» e per la frequente partecipazione ai programmi televisivi di approfondimento – ma più apprezzato all’estero, dove ha pubblicato tomi di Scienza della Politica, adottati come libri di testo da importanti istituzioni internazionali.
Il quesito che si cerca di risolvere si presenta in questo modo: accettereste che vostra figlia sposi un cittadino di origine islamica? La risposta ovvia è «Purché sia un bravo ragazzo». Ma è un bravo ragazzo uno che, tra le altre cose, non vota, socializza soltanto all’interno della propria comunità d'origine, non legge giornali se non quelli nella lingua del proprio paese d’origine,e si sente di rispondere soltanto alla legge di “Dio”? In altri termini, è un bravo ragazzo chi non è anche un bravo cittadino?

Posto di fronte a un caso di questa natura il genitore liberaldemocratico illuminato ammutolisce. Questo libro può fornirgli alcuni strumenti per orientarsi nel proprio sconcerto e per recuperare, con la lucidità , la serena coscienza della propria solidità etica.

Nel mondo industrializzato, orientato essenzialmente verso un approccio multiculturale, l’obiettivo di Sartori è quello di «chiarire quale sia la teoria del pluralismo, ricostruendola nei suoi rapporti con la teoria della tolleranza e del consenso». Per far questo, comincia ad argomentare una serie di definizioni che descrivono, o al contrario, negano, l’idea di pluralismo come lo scrittore la intende.

Il pluralismo è il codice genetico che permette di descrivere i valori, i meccanismi e i gradi di “apertura” della società aperta, «che è la società libera così come la intende il liberalismo». Pluralismo e tolleranza sono concetti interrelati, in una democrazia liberale che consiste nella concordia discors. Solo con il pluralismo è stato possibile concepire un sistema di partiti. Infatti è valido anche il contrario, che il partito unico è la negazione della democrazia liberale. Va anzi sottolineato che il pluralismo non può essere ridotto a una pluralità di congregazioni o a una pluralità di gruppi d’interesse. Ogni società è caratterizzata da una stratificazione di organismi multipli, ma il pluralismo non va inteso in banali termini di «complessità strutturale».
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Il pluralismo disconosce l’intolleranza e considera qualsiasi “identità ” con eguale rispetto e riconoscimento, purché basati su un principio di reciprocità .

A livello politico il pluralismo «denota una diversificazione del potere e incanala le sue varie componenti nei partiti». Il pluralismo parte da un punto di convergenza fondamentale nella dialettica partitica, il consenso sulla risoluzione dei conflitti, che in democrazia si basa sul governo della maggioranza. Il governo della maggioranza non deve essere inteso come “dittatura della maggioranza”. Il governo maggioritario controlla il proprio potere nel rispetto della minoranza e svolge il suo ruolo in una dialettica del dissentire, «un processo di aggiustamento tra menti e interessi dissenzienti.» Il pluralismo innesca così e mantiene un processo basato sulla rotazione pacifica del potere politico, separato e autonomo rispetto ad altri ambiti come l’economia e la fede.

Il pluralismo infine postula un tessuto sociale aperto all’associazionismo, a patto che l’ammissione a questi organismi sia volontaria e non esclusiva, conceda cioè la possibilità di associarsi (o meno), e partecipare a organizzazioni diverse. Sono escluse tutte le società basate su «tribù, razza, casta, religione e qualsiasi tipo di gruppo tradizionalistico». L’associazionismo ripartisce la società lungo linee di demarcazione («cleavages») che risultano “incrociate” e non coincidenti (è buono per un cattolico praticante far parte dell’associazione dei panificatori e dell’associazione dei genitori. Meno buono è far parte dell’associazione dei panificatori cattolici e di quella dei genitori cattolici.).

Un discorso a parte merita il concetto di tolleranza, in relazione al concetto di comunità . «Chi tollera ha credenze e principî propri, li ritiene veri, e tuttavia concede che altri hanno il diritto di coltivare “credenze sbagliate”». Tuttavia, non si può pretendere che la tolleranza sia illimitata.
    «Il grado di elasticità della tolleranza può essere stabilito [...] da tre criteri. Il primo è che dobbiamo sempre fornire ragioni di quello che consideriamo intollerabile (e cioè, la tolleranza vieta il dogmatismo). Il secondo criterio coinvolge l’harm principle, il concetto “di non far male”, di non danneggiare; insomma, non siamo tenuti a tollerare comportamenti che ci infliggono danno o torto. E il terzo criterio è certamente quello della reciprocità : nell’essere tolleranti verso altri ci aspettiamo a nostra volta di essere tollerati».
C’è una definizione che George J. Graham, Jr. ha dato al consenso («un condividere che in qualche modo lega») che mette questo concetto in collegamento con quello di comunità . Un'astrazione che tende a prendere il posto reso vacante dalla crisi dello stato-nazione, un “identificatore” molto flessibile, che si adatta a essere applicato a gruppi di appartenenza molto grandi (pensiamo all’Europa) come a quelli molto piccoli (comunità di quartiere), purché sostenuti da un senso d’appartenenza delineato lungo il confine che corre tra un noi e un loro. In questo contesto, una comunità pluralistica è quella composta da tante «sotto-comunità », con una necessaria dotazione di atteggiamenti tolleranti, associazioni volontarie e multiple, linee di demarcazione incrociate e trasversali. Un decisivo sviluppo rispetto al modello prototipale della polis greca, un modello che non ha un corrispondente all’esterno del mondo occidentale, che si distacca anche dall’esperienza Nord-americana.
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Ed è qui il cuore del problema, perché il caso degli Stati Uniti interessa una nazione di nazionalità che è andata costituendosi in uno spazio immenso, mentre le nazioni che costituiscono l’Europa, che occupano uno spazio già densamente popolato, affrontano un’immigrazione incontrollata di contro-nazionalità che negano l’identità nazionale. Se il caso degli Stati Uniti si sviluppa in un’atmosfera di “competizione” tra etnie, il caso dell’Europa registra subito una reazione di “allarme” e, immediatamente dopo, una reazione di “rigetto”. Reazione che non riguardano tutti gli immigrati allo stesso modo. Gli asiatici ne sono virtualmente immuni. Chi invece ne è principalmente interessato proviene dall’Africa continentale e dal Nord-Africa, tra gli immigrati più resistenti ad accettare il concetto della separazione tra Stato e Chiesa, tra politica e religione. Si tratta del principio più rappresentativo della convivenza europea. Il limite della tolleranza pluralista si materializza in vista di questa barriera invalicabile.

Il multiculturalismo come molteplicità di culture non contraddice in sé il pluralismo, a meno che esso non venga preso come un valore a sé stante. In questo caso, però, il multiculturalismo entra in rotta di collisione con il pluralismo, «sia per la sua intolleranza, sia perché rifiuta il riconoscimento reciproco, sia perché fa prevalere la separazione sull’integrazione». Multiculturalismo non è la cultura colta, né è cultura in senso antropologico, né in termini di modelli di comportamento, né, infine, in senso politico. E’ invece cultura in senso linguistico, religioso, etnico, sessuale (es.: la cultura femminista) e in senso di tradizione culturale. Dal che si deduce che, «sotto la dizione “cultura” non tutto è cultura». Il sospetto è che sotto il multiculturalismo si celi un intenzione razzista, salvo che la parola “cultura” si presenta assai meglio della parola “razza”.

Non a caso, il multiculturalismo entra in crisi nel momento in cui una delle sue "minoranze" raggiunge le dimensioni critiche che le permettono di contrattare "democraticamente" concessioni che mettono in crisi il sistema vigente. A questo punto, la balcanizzazioni della società è a un passo.

Descrivendo l’esperienza americana dell’affermative action, (un “correttore” d’ingiustizia sociale che discrimina “in positivo”) Sartori dimostra che il multiculturalismo, con la “sua” supposta politica del riconoscimento, fabbrica in realtà e moltiplica differenze e tende allo smantellamento della comunità pluralistica. Infatti «i diritti del cittadino sono tali perché sono tali per tutti». In caso contrario diventano privilegi.

Giungiamo al tema centrale che sottende al titolo di questo denso libricino, che è il tema sempre attuale dell’immigrazione, ovvero il tema dell’accoglienza che intendiamo riservare alle masse migranti che giungono nelle nostre città , portandosi dietro diversità “linguistiche”, “di costume”, “religiose” ed “etniche”.
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Il fenomeno dell’immigrazione è tanto più problematico quanto più consistenti sono le dimensioni dei flussi migratori e ampia è la distanza culturale dei nuovi venuti. Non ci sono ricette facili, né applicabili a tutti, come la concessione indiscriminata della cittadinanza. Una politica che si ponga l’obiettivo di regolare questo processo dovrebbe essere consapevole di ciò che sta facendo, avere cioè un’idea chiara di “chi” si sta mettendo in casa, “come” intende procedere e, soprattutto, “perché” intende farlo.

Invece, i governi italiani sembrano modellare la propria politica su basi che Sartori ritiene ampiamente inadeguate: «un fasullo terzomondismo nel quale confluiscono, rafforzandole in modo abnorme, sinistre e populismo cattolico».

“Chi”. L’esercito di poveracci che permeano attraverso le nostre porose frontiere è composto da ex-agricoltori che hanno perso la terra a causa dell’urbanizzazione e/o a causa di un'eccessiva natalità . Costituiscono una massa in continua crescita e questo porta velocemente al “perché”. Qui Sartori è categorico: «perché non sa come fermarli», motivo assai più realistico della pretesa che i ricchi europei non sono più disposti a svolgere i lavori più umili. Quanto al “come” regolare il processo d'integrazione, dipende dalla persona che ci si trova di fronte, la quale potrebbe non essere disposta ad essere integrata, sulla base soprattutto di una “diversità ” di natura religiosa e/o etnica che la potrebbe rendere resiliente a una cittadinanza che separa lo stato civile dallo stato religioso.

Per buona pace (diciamo noi) del nostro combattuto genitore, che non sarà tenuto a dubitare dei propri sentimenti liberal-democratici, opponendosi a un matrimonio che, proprio, non s’ha da fare. A meno che lo sposo, oltre che un bravo ragazzo, non dimostri anche di essere un bravo cittadino.

Il saggio è scritto in un linguaggio semplice, avvicinabile dai lettori che seguono lo scrittore nei suoi interventi sui mezzi di comunicazione di massa. Inoltre, con l'edizione Superbur Saggi del 2002, l'autore ha voluto portar utili integrazioni che completano in qualche modo il quadro delle sue argomentazioni.

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