Nella gabbia del lessico
Non è vastissimo il lessico poetico di B., ma, come dice Calasso, ”La sua parola è carica, qualsiasi
cosa dica. C’è un ingorgo di linfa, un addensamento di energia, una pressione dall’ignoto che la
sostengono –e alla fine la abbattono”. Si tratta quindi di un lessico “poetico” per eccellenza, fatto di
poche parole pesanti, ma spesso vaghe. Le occorrenze dei singoli termini infatti superano spesso i
confini del campo semantico loro assegnato. In certi casi, piuttosto che addentrarsi nella scelta di
nuovi vocaboli, il poeta costringe quelli da lui prediletti a “significare oltre”; per questo una torcia,
una fiaccola, una fiamma possono essere “vaste”, perché l’aggettivo vaste ha un suo utilizzo
ottimale nel verso di B.. In altri casi l’aggettivo lourd (pesante) viene usato anche per indicare la
durevolezza di un ricordo (Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs! Cfr. Il Cigno).
Certe occorrenze per esempio del termine monotone sono un po’ stupefacenti per estensività, in
quanto si applicano a inverno, sole, neve, paesaggio, suono, universo. In altre parole ciò significa
che il poeta possiede una sorta di scrigno “limitato” di vocaboli molto pregiati e accuratamente
coltivati, che stanno insieme, si cercano, si rispondono, si ritrovano, alla fine. Ciò fa pensare ad un
sistema soggiacente, quasi una rete lessicale che sottende la lingua poetica o forse una rete che
imprigiona il cervello in una visione strutturata del mondo, da cui né il mondo né il poeta che lo
descrive possono sfuggire.
Si può scartare l’ipotesi che tale rete di vocaboli sia stata scelta con spirito parnassiano, in quanto
quei termini non rispondono all’esigenza della buona fattura del verso, essendo il verso di B.
piuttosto scabro e puntuto sia sul piano semantico che su quello musicale. In effetti i parnassiani
non amarono I Fiori del Male alla loro prima uscita. Non resta quindi che abbracciare l’altra ipotesi,
e cioè che il lessico di B. risponda a un dettato ideologico, ad una visione del mondo molto
ragionata e forse più ragionata che sentita. In effetti se una critica sorge spontanea di fronte a certe
sue contorsioni linguistiche, si tratta di una critica alla freddezza poetica o alla eccessiva cerebralità
del verso.
In ogni parola, in ogni vocabolo del suo lessico noi percepiamo una classica tragicità. Questo è il
primo dato che impreziosisce il suo linguaggio: le parole ricorrono sempre di nuovo eguali, pescate
nello scrigno della sua Poetica. Tutto il suo inferno vetero-romantico, di cui lo accusavano i
detrattori, in realtà poggia su di un uso classico della parola. E come nei classici latini il vespertillus
è stridens e il senex è loquax e l’anus è tremula e via dicendo, così in Baudelaire gli aggettivi noir,
atroce, affreux, furieux, come gli aggettivi clair, limpide, pur, vaste, profond e via dicendo si
sposano sempre a termini classicamente ricorrenti e sembrano come la vite che si sposa sempre
all’acero campestre, il popolare chioppo.
Esiste un uso classico quindi sia dell’aggettivazione che della sintassi –i tanti ablativi assoluti
espressi col participio presente!- ed esiste un uso classico della prosodia, su cui l’autore stesso
insisteva negli abbozzi per una sua prefazione a I Fiori del Male.
Il sistema su cui si struttura il lessico è costituito da una specie di schema a croce con due poli
verticali, uno in alto e uno in basso, e due poli orizzontali, uno a sinistra e uno a destra. I vocaboli vi
stanno collocati in una sorta di equilibrio forzoso, per cui se in alto ci sta la luce e il cielo, in basso
ci sta la terra e le tenebre, se a sinistra si colloca lo spazio e la vastità a destra troviamo i termini che
rievocano l’angustia e la meschinità, anche in absentia.
Sistema dialettico, quindi, che suppone sempre una sorta di equilibrio. Il poeta parlava della
capacità del verso di andare in verticale, salendo e precipitando, vertiginosamente, ma anche della
capacità di trovare corrispondenze orizzontali, vicine e lontanissime, direttamente incontrate o
inseguite a zig-zag.
Il sogno di un curioso
A Félix Nadar
Conosci tu, come me, il dolore assaporato
e fai dir di te stesso: "Che uomo singolare!"
-Stavo per morire. Nell'animo innamorato
brama a orrore si univa, male particolare;
ansia a speranza viva, senza umore adirato.
Più si andava svuotando la clessidra fatale,
più era il mio tormento acerbo e prelibato;
il mio cuore si strappava al mondo familiare.
Ero come il fanciullo avido di spettacolo,
che odia il sipario come si odia un ostacolo...
finalmente la fredda verità si rivelava:
ero morto senza sorpresa e la terribile aurora
mi fasciava. -E che! solo di questo si trattava?
Il sipario era alzato e io aspettavo ancora.
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