CRITICA DELLA TOLLERANZA


30-04-2012
Si parla tanto di tolleranza intesa come rispetto dell’altrui opinione e di comportamenti differenti dal nostro. Le si conferisce, quindi, forte valenza positiva. Ma è davvero così? Nel suo celebre libro “Sulla tolleranza” (Laterza, 2000), Michael Walzer sosteneva la necessità, da parte dello stato, di creare cittadini “decisi a difendere la tolleranza nelle proprie comunità, ma nello stesso tempo orientati ad apprezzare e a riprodurre le differenze”. Una tesi interessante che, tuttavia, merita di essere integrata dalle analisi esposte più di quarant’anni fa da Herbert Marcuse in un trattatello provocatorio, “La tolleranza repressiva”, riproposto da poco dalle edizioni Mimesis con il titolo “Critica della tolleranza”.
Quando, nel 1967, il saggio apparve per la prima volta in Italia, Marcuse era già noto per il suo fortunato “Der eindimensionale Mensch” (“L’uomo a una dimensione”), testo molto considerato nel periodo della contestazione studentesca e, a nostro avviso, da rileggere con attenzione, in cui, con netto anticipo rispetto ad altri autori, denunciava la spersonalizzazione dell’individuo nella società dei consumi, la sua riduzione alla condizione unilaterale di succube, soggiacente ai bisogni imposti dal sistema.
Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”, scriveva in quel libro il filosofo, “prevale nella civiltà industriale avanzata”. Una non libertà data, appunto, dal totalitarismo implicito in una società, come quella consumistica e iperproduttivistica, in cui le stesse aspirazioni individuali risultano manipolate. In tale contesto, la stessa tolleranza assume connotati repressivi, diviene espressione di un sistema mirante a fagocitare tutto (persino la nostra interiorità), pronto ad entrarci dentro per meglio condizionarci, plagiarci, renderci unidirezionali. Il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco ottunde la capacità di resistenza e di opposizione al sistema. E’ in questa situazione che si fa strada la tolleranza repressiva, vista come appiattimento sull'ordine sociale esistente. L’apparente concessione di libertà non scalfisce affatto gli interessi dominanti. Anzi, ne garantisce la persistenza. Nelle democrazie occidentali la tolleranza, secondo Marcuse coincide con il permissivismo, che si regge base sull'assunto che nessuno è in possesso della verità e che pertanto il soggetto delle scelte deve essere la collettività. La società, arrogandosi l’amministrazione totale dell'esistenza degli individui, ne impedisce la libertà di scelta, producendo il dominio di un conformismo generalizzato che impedisce, tramite la loro assimilazione, opposizione e critica. Tutti gli spazi alternativi, tutte le forme di opposizione, tutte le dimensioni "altre" dal potere capitalistico (come anche dal comunismo) sono assoggettati al dominio apparentemente "democratico" della società industriale avanzata: l'uomo, la società e la cultura sono ridotti all'unica dimensione tecnologico-consumistica, che condiziona nel profondo bisogni e desideri umani, precostituendoli
Nato a Terni il 4 novembre 1956, è radicale da quando aveva quattordici anni. Vegetariano, animalista, appassionato gattofilo, è militante nonviolento, capitiniano.

Come può, si chiede Marcuse, proclamarsi libera una società che, di fatto, ci aggredisce e condiziona sin nei nostri desideri?
In “Critica della tolleranza” l’analisi si fa sferzante. Secondo il filosofo, la possibilità di scelta, apparentemente assicurata e, anzi, sostenuta nelle nostre società (cosiddette “democratiche”), è in realtà inficiata dal sistema onnipervadente. Il permissivismo ne è la forma più eclatante: si ammette e annette ogni manifestazione per meglio ridurre, se non addirittura cancellare, spazi d’opposizione. Rendendo tutto lecito, si assimila (e, dunque, annulla) ogni tentativo di alternativa. Quanto avviene in campo artistico è, secondo Marcuse, in questo senso, emblematico: il mercato “assorbe ugualmente bene (forse con frequenti fluttuazioni del tutto improvvise) l’arte, l’anti-arte e la non-arte”, facendo sì che venga inghiottito “l’urto radicale dell’arte” contro la realtà stabilita.
Se si considera la distanza temporale che ci separa da quando venne elaborato il testo di Marcuse e si raffronta l’ermeneutica allora avanzata con lo scenario dei nostri giorni, non si può non scorgere quanto gli interrogativi posti dall’autore siano, oggi più che mai, cruciali. La garanzia indiscriminata di diritti e libertà politiche può assumere connotati repressivi? E, ancora, incoraggiare il cosiddetto anticonformismo tramite una tolleranza ingannevole, come ad esempio avviene con certi stereotipi imposti all’immaginario giovanile dal sistema industriale-comunicazionale (dai divi rock al Che Guevara), non equivale forse a rafforzare il conservatorismo indebolendo, nel contempo, la capacità di prospettare una “resistenza costruttiva”? Lo scontro di classe non è affatto finito. Cambia solo modalità. I giochi non sono affatto chiusi. Al contrario, si aprono proprio adesso estendendosi a molteplici fronti, già in nuce nella riflessione della scuola francofortese, per una piena liberazione del vivente.

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