La filosofia del diritto contemporanea


Faralli, Carla, La filosofia del diritto contemporanea.
Roma-Bari, Laterza (Libri del Tempo), 2002, pp. 138, Euro 14, ISBN 88-420-6765-2

Recensione di Rodolfo Lorenzoni - 28/10/2002

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La tesi centrale su cui esplicitamente verte questo lavoro di Carla Faralli è la constatazione della crisi del positivismo giuridico nell'ambito della filosofia del diritto contemporanea. L'individuazione di questa crisi per l'autrice svolge anzitutto una funzione di tipo temporale, nel senso che le permette di definire come "contemporaneo" proprio quel periodo della riflessione sul diritto che si dipana precisamente a partire dalla messa in discussione del positivismo giuridico, quindi dalla fine degli anni '60, segnatamente dopo la diffusione del pensiero di Herbert L.A. Hart. E in secondo luogo, utilizzando questa critica al positivismo giuridico come principale chiave di lettura, possono essere identificati e discussi i temi più importanti che negli ultimi decenni hanno caratterizzato la riflessione filosofica sul diritto.
Crisi del positivismo giuridico, dunque. Esso può essere definito come quella dottrina che si interessa precipuamente dell'aspetto formale del diritto, in quanto studia le strutture normative prescindendo dai valori che le ispirano (e intendono guidarle verso un fine) e in definitiva dagli stessi contenuti fondanti che le connotano. È evidente che questo tipo di impostazione teorica ha avuto buon gioco a prosperare sul terreno ad essa favorevole che si è costituito in filosofia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Da una parte, infatti, gli "scienziati sociali" propugnano la avalutatività nell'esame dei fenomeni umani, decretando la assoluta impossibilità di reperire criteri assiologici nella decisione giuridica e politica; dall'altra gli esponenti della filosofia analitica distruggono ogni pretesa di fondazione metafisica (e persino di conoscenza oggettiva) di qualsivoglia "valore". Quando insomma il primo Wittgenstein lascia fuori dal linguaggio sensato tutti gli enunciati valutativi, ossia quelli che tentano di rappresentare i tratti generali del mondo anziché raffigurare fatti, non fa che spianare la strada a concezioni dello stesso genere di quelle che presiedono al positivismo giuridico. E benché la storiografia filosofica abbia ormai chiarito come non fosse esattamente questo l'intento di Wittgenstein (anche alla luce dello sviluppo successivo del suo pensiero), è un dato di fatto che le parole del Tractatus ("Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere") e in genere le idee dei positivisti logici, abbiano per così dire "autorizzato" i positivisti giuridici e le loro teorie.
Ma dopo Hart, evidentemente, qualcuno ha voluto ricominciare a parlare di ciò su cui, secondo i giuspositivisti, avrebbe dovuto tacere. E la filosofia del diritto ha così preso a erodere le barriere erette tra diritto e morale, assumendo sempre più le fattezze di disciplina normativa, e occupandosi di questioni inevitabilmente collegate all'etica e alla filosofia politica. Ed è stato infatti un filosofo politico, l'americano John Rawls, a mettere in discussione uno dei fondamenti del positivismo giuridico, cioè l'impossibilità di costruire un discorso scientifico o razionale sui contenuti deontologici del diritto, puntando proprio, con la sua Teoria della giustizia - pur in un approccio sostanzialmente formalistico - a elaborare criteri per distinguere gli assetti sociali più giusti. Nel frattempo anche in Italia, con le opere di Bobbio e Scarpelli, si cominciavano ad avvertire i primi timidi sintomi della crisi del positivismo giuridico, crisi che - in parte paradossalmente - nella progressiva "apertura della filosofia del diritto ai valori etico-politici" sarebbe poi divenuta costitutiva della stessa disciplina.
Tale "apertura ai valori" si concretizza prevalentemente nelle idee dei neocostituzionalisti e nella nuova teoria del diritto naturale. Il neocostituzionalismo rivendica la necessità di "correttezza morale" nella creazione di ogni diritto e afferma "la sua non riducibilità a diritto valido solo in termini formali, secondo la prospettiva positivistica" (p.16). Tutto questo comporta la preferenza espressa da neocostituzionalisti come Dworkin e Alexy a favore del cosiddetto "bilanciamento" nella decisione giuridica e la costante attenzione che essi riservano ai processi di applicazione concreta del diritto, in particolare in sede giudiziaria, affinché l'apertura del diritto ai valori non resti una disattesa ambizione retorica. Ma anche Habermas può essere messo sullo stesso piano, se è vero che egli annette il compito di presiedere alle pratiche dell'agire alla comunicazione razionale, la quale opera non solo in base alle regole formali della logica, ma anche nella considerazione della responsabilità morale degli individui titolari della giuridicità: i quali, approvandole, sono gli unici soggetti in grado di conferire validità alle norme.
Ma è nella nuova teoria del diritto naturale che valori e concezioni politiche e morali sono "entrati" nella filosofia del diritto attraverso il confronto con i fatti, come testimonia la polemica tra Hart e Lord Devlin sulla opportunità o meno della repressione penale della omosessualità e della prostituzione nell'Inghilterra degli anni '60. La Commissione incaricata, in accordo con le idee di Hart, si era espressa contro questi provvedimenti, sostenendo sulla scia della filosofia di John Stuart Mill che si potesse interferire soltanto con comportamenti atti a causare danni a terzi. Di parere opposto Lord Devlin, il quale spiegò che certi principi morali sono parte essenziale della società, tanto che calpestarli avrebbe significato minacciare le fondamenta stesse della convivenza. Due concezioni diverse, in tutta evidenza: una ispirata al liberalismo e l'altra al moralismo. L'una, quindi, a favore del mantenimento delle libertà personali e della scelta individuale dei valori a patto di preservare le identiche prerogative altrui; l'altra tesa invece alla difesa di principi prestabiliti, asseriti come morale etica oggettiva, perduti i quali si rischia il crollo dell'intera costruzione sociale. Ma in entrambi i casi si vedono riconfermate sia la compenetrazione dei valori nella filosofia del diritto, sia la conseguente prossimità di quest'ultima alle problematiche dell'etica e della filosofia della politica.
Il libro prosegue quindi nell'esposizione di altri filoni di ricerca, che nascono e vivono in consonanza più o meno accentuata con queste istanze. Tra di essi gli studi sul ragionamento giuridico e sulla logica giuridica, fino alle nuove frontiere della filosofia del diritto, quali l'informatica giuridica e le problematiche della bioetica. E dunque la lettura suggerisce degli interrogativi: l'abbandono del positivismo giuridico è (e dovrebbe essere) totale? Quale direzione stanno prendendo, e sarebbe augurabile che prendessero, le ricerche dei filosofi del diritto?
Un semplice accenno a un tema tanto ampio e controverso come quello concernente la neutralità della scienza - e delle scienze umane in particolare -, potrebbe assumere dimensioni colossali. Quel che importa precisare qui è che, in particolare dopo la lettura del lavoro di Faralli, non appare auspicabile che un teorico del diritto accosti filosoficamente il fenomeno giuridico rinunciando a proporre apertamente, anche in sede di elaborazione di modelli prescrittivi, alcuni principi regolativi. I quali, tra l'altro, sembrano rappresentare l'unica soluzione per dotare i singoli ordinamenti giuridici di identità e di legittimità. Ma il problema, comunque, permane: quali principi? Parlare di "norma fondamentale", ricorrendo alla terminologia kelseniana, probabilmente è poco opportuno, poiché ingenera la sensazione di una troppo robusta e invadente "fondazione filosofica" del diritto. Molto più adatta, forse, può essere la locuzione introdotta da Hart, rule of recognition, norma di riconoscimento, anche in riferimento alla onestà intellettuale del teorico che ne ammette, finanche sotto il profilo etimologico, l'esistenza-riconoscibilità. Essa identifica e qualifica ciascun tipo di ordinamento giuridico, implicando l'esistenza di una grande varietà di norme fondamentali, poiché i valori giuridici non consentono, come esigeva Kelsen, una fondazione logico-trascendentale, bensì soltanto una giustificazione relativa.
Relativa, non inesistente. Rifacendosi a Hume, infatti, anche volendo riconoscere la presenza di caratteri costanti alla base della natura umana, sarebbe comunque del tutto illecito far discendere univoche prescrizioni normative dallo studio descrittivo di quei caratteri, oppure in generale dall'esame di vicende e stati di cose: da premesse descrittive non è dato, compiendo un inaccettabile salto logico, giungere a conclusioni normative. Ma ciò anziché sottrarre al teorico il compito di porre principi su cui basare il discorso giuridico, allarga invece i suoi spazi di scelta e di ricerca. Perché se anche, in accordo con Spinoza, egli credesse nell'esistenza di una incoercibile natura che costringe i pesci grossi a mangiare i più piccoli, non sarebbe logicamente tenuto a far derivare da ciò un diritto normativo dei pesci grandi. È quindi senz'altro vero che "il concetto di diritto - nelle parole di Uberto Scarpelli - puo' essere delimitato unicamente in modo convenzionale attraverso definizioni: ciascuna definizione si dimostra più o meno adeguata, sul piano pragmatico e strumentale, rispetto a certi scopi pratici e teorici, ma può risultare inadeguata rispetto ad altre finalità". Ma queste finalità dovrebbero essere dettate proprio da quei principi regolativi, da quei criteri, da quei valori (che possono limitare la voracità dei pesci più grossi...) cui la filosofia del diritto si sta opportunamente aprendo dopo la crisi del positivismo giuridico.
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Introduzione. La crisi del positivismo giuridico. I. L'apertura della filosofia del diritto ai valori etico-politici - II. L'apertura della filosofia del diritto ai fatti - III. Gli studi sul ragionamento giuridico - IV. Gli studi di logica giuridica - V. Nuove frontiere per la filosofia del diritto - Bibliografia - Indice dei nomi.
L'autriceTorna all'inizio
Carla Faralli insegna Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. Tra le sue opere: John Dewey: una filosofia del diritto per la democraziaDiritto e scienze sociali. Aspetti della cultura giuridica italiana nell'età del positivismo; cura dell'edizione aggiornata dei tre volumi di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto.

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